1. L’EDITORIALISTA DEL ‘’NEW YORK TIMES’’ ROGER COHEN METTE IL TWEET NELLA PIAGA: “LA POLITICA DELL’AMMINISTRAZIONE OBAMA SULL’EGITTO È STATA UN PASTICCIO TOTALE. DIVENTERÀ UN CASO DI STUDIO SULL’INETTITUDINE IN CAMPO DIPLOMATICO” 2. IL COLPO DI STATO DEL GENERALE AL SISI DISINTEGRA CON QUESTA FIAMMATA DI VIOLENZA L’ESPERIMENTO DI GOVERNO DEI FRATELLI MUSULMANI E LI SPINGE DI NUOVO VERSO LA CLANDESTINITÀ. SE LA DEMOCRAZIA NON FUNZIONA, TORNERANNO ALL’EVERSIONE ISLAMISTA? 3. MORSI HA FALLITO, IN PARTE PERCHÉ LA FRATELLANZA MUSULMANA ERA CRESCIUTA COME UN’ORGANIZZAZIONE SEGRETA NON ABITUATA ALLA DEMOCRAZIA LIBERALE, IN PARTE PERCHÉ I SAUDITI CON FONDI E PRESSIONI HANNO CERCATO PER TUTTO IL TEMPO DI SOVVERTIRLO, E LA SOCIETÀ EGIZIANA SI È SPACCATA. AVANTI CON LA GUERRA CIVILE

1. MASSACRO AL CAIRO, IL JIHAD SI FREGA LE MANI. ORA TORNERANNO ALL'EVERSIONE ISLAMISTA?
di Daniele Raineri per Il Foglio

Nella storia del Fratelli musulmani ci sarà un "prima di Rabaa" e un "dopo Rabaa". I generali egiziani hanno scelto l'opzione Tiananmen, la più temuta: muovere con le forze di sicurezza contro i sit-in del partito islamista nella capitale (a Rabaa el Adawiya e a Nahda) e disperdere i manifestanti con una brutale operazione di repressione.

Qualche manifestante era armato, è vero, ma si trattava di una minoranza infinitesima rispetto alla massa dei seguaci della Fratellanza - attivisti del Cairo e da fuori, a volte famiglie intere - che per più di un mese ha sopportato il caldo e il digiuno del Ramadan in attesa del presidente Mohamed Morsi, arrestato e mai più mostrato al pubblico dal giorno del golpe, il 3 luglio.

Eppure i militari hanno agito con violenza estrema, uccidendo chi si opponeva alla rimozione, sparando ad altezza uomo, sfondando le barricate con i bulldozer, appiccando il fuoco alle tende con dentro persone, picchiando senza pietà anche i giornalisti stranieri presenti - un cameraman inglese di Sky news è stato colpito al petto da un cecchino ed è morto, come pure due giornalisti arabi e un altro, l'americano Mike Giglio del Daily Beast, racconta di essere stato malmenato e portato in uno stadio assieme ad altri reporter e a un gruppo di arrestati egiziani. Computer, foto e video sono stati sequestrati.

Oppositori chiusi dai militari in uno stadio: si può ancora sostenere che quello del ministro della Difesa al Sisi, ancorché appoggiato da milioni di sostenitori in piazza e da parte dell'opinione pubblica anche ieri, non è un colpo di stato?

Le cifre della violenza oscillano: secondo il ministero della Salute gli uccisi sono 149, secondo fonti dei Fratelli musulmani citate da al Jazeera sono 2.200. Un'esagerazione, ma fonti del Foglio al Cairo aggiungono al conteggio delle vittime dei militari anche un numero spesso ignorato, non specificato ancora ma nell'ordine delle centinaia, quello dei desaparecidos egiziani, arrestati e spariti nel nulla.

I testimoni negli obitori raccontano di colpi d'arma da fuoco alla testa e al torace come prima causa di morte. Il governo ha imposto un coprifuoco dalle nove di sera alle sei del mattino in 12 province, Cairo compresa. Il vicepresidente, Mohamed ElBaradei, si è dimesso dicendo che non accetta la responsabilità "nemmeno per una goccia di sangue".

Il prima e il dopo Rabaa. Il putsch, appoggiato dai sauditi e tetragono alle blande critiche degli Stati Uniti, disintegra con questa fiammata di violenza l'esperimento di governo dei Fratelli musulmani e li spinge di nuovo verso la clandestinità. Se la democrazia non funziona, torneranno all'eversione islamista?

La caduta di Mubarak fu un colpo profondo per al Qaida, si disse, perché dimostrò che la piazza araba e non le autobomba guida il cambiamento e ottiene risultati. Il generale al Sisi finisce per dare argomenti perversi agli estremisti - e già ieri i pro Morsi si sono abbandonati a ritorsioni violente e insensate contro i copti e le chiese. Sono i bersagli iniziali.

2. «LA DIPLOMAZIA ESITANTE DI OBAMA HA FALLITO»
Viviana Mazza per il Corriere della Sera

«La politica dell'amministrazione Obama sull'Egitto è stata un pasticcio totale. Diventerà un caso di studio sull'inettitudine in campo diplomatico». Così scriveva ieri l'editorialista del New York Times Roger Cohen sul suo account Twitter. Raggiunto al telefono, il giornalista nato a Londra, con un passato di corrispondente estero in quindici paesi, e che continua a viaggiare e scrivere sul Medio Oriente, ricorda l'esitazione mostrata da Washington già durante le proteste di Piazza Tahrir. «All'inizio c'era stata una mediazione perché il presidente egiziano Mubarak restasse al potere per altri sei mesi, prima che fosse chiaro che bisognava lasciarlo andare».

Poi però l'amministrazione Obama ha appoggiato la Fratellanza Musulmana, tanto che è stata accusata dalla piazza di sostenere Morsi come prima aveva fatto con Mubarak.
«La politica americana era stata quella di appoggiare i despoti nella regione perché erano visti come un baluardo contro i jihadisti, mentre invece la radicalizzazione viene a mio parere alimentata da una società senza opportunità. Dopo Mubarak, Obama ha capito che, in effetti, avere elezioni libere e aperte, con la partecipazione degli islamisti, era una via d'uscita dall'impasse. Quando Morsi è salito al potere, gli Stati Uniti hanno cercato di appoggiarlo. Ma Morsi ha fallito, in parte perché la Fratellanza Musulmana era cresciuta come un'organizzazione segreta non abituata alla democrazia liberale, in parte perché i sauditi con fondi e pressioni hanno cercato per tutto il tempo di sovvertirlo, e la società egiziana si è spaccata».

Cosa avrebbero potuto fare gli Stati Uniti?
«Avrebbero dovuto essere chiari sin dall'inizio, agire in modo più determinato per far sì che Morsi aprisse veramente a tutte le forze politiche e sociali, che facesse le scelte giuste in economia, e avrebbero dovuto frenare l'esercito. Avevano i mezzi per farlo. Ma avrebbero dovuto agire prima che Morsi accrescesse i suoi poteri, prima dello scontro sulla costituzione e prima che i gruppi di sinistra e laici restassero fuori. Ma non riesco a pensare a dichiarazioni significative di Obama».

Ma perché tanta esitazione?
«Penso che abbiano avuto un peso le pressioni dei sauditi che spingevano gli alleati americani a tagliare con Morsi. E penso che l'amministrazione non sapesse cosa fare, anche se certo non credo che gli Stati Uniti possano risolvere tutti i problemi».

Come giudica le scelte di Obama rispetto alle promesse fatte al Cairo, appena eletto, di cambiare la politica di Bush sul Medio Oriente?
«Certo Obama non è entrato in guerra come Bush, e io gli do credito per l'intervento in Libia che era giustificato anche se la situazione attuale non è buona. Ma è stato deludente su Israele e i palestinesi, e ha agito in Siria oltre che in Egitto con troppa esitazione».

Il segretario di Stato John Kerry aveva detto che la deposizione di Morsi forse avrebbe evitato la guerra civile.
«Sembra che non avesse ragione».

Washington ha fatto di tutto per non chiamarlo «golpe». Lo è?
«Ovvio che è un colpo di Stato. Certo, c'erano decine di migliaia di persone in strada, e tantissima rabbia, ma se un esercito rovescia un presidente scelto in elezioni libere, l'ultima volta che ho guardato nel dizionario veniva chiamato "colpo di Stato". L'amministrazione ha fatto di tutto per evitare il termine perché, certo, avrebbe conseguenze in termini di aiuti, ma questo continuo zigzagare e cambiare posizione ha giocato un ruolo negativo».

E adesso cosa possono fare gli Stati Uniti e l'Europa?
«Ora che centinaia di persone sono state uccise, non penso che si possa invertire il corso degli eventi. I Fratelli Musulmani torneranno ad operare in modo sotterraneo. Adesso l'Ue chiede alle autorità egiziane di agire con ritegno, ma mi sembra un po' tardi».

 

 

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