INTERNO FORMATO INFERNO: DA SCELBA A COSSIGA DA SCALFARO AD ALFANO, IN TANTI SONO INCIAMPATI AL VIMINALE

Marcello Sorgi per "la Stampa"

Che la maledizione del Viminale si sarebbe abbattuta anche su di lui, Alfano non lo aveva previsto. Non poteva. E non solo perché il caso della contestata espulsione della moglie del dissidente kazako Ablyazov e della sua figlioletta di 6 anni è esploso nel bel mezzo del complicato avvio del governo delle larghe intese.

Momento nel quale il ministro e vice presidente del Consiglio è stato molto assorbito dai problemi politici che affliggevano l'inedita maggioranza degli alleati -avversari.

Ma perché la caratteristica della maledizione è proprio di colpire il responsabile del ministero alle spalle, e a volte anche molto tempo dopo che ha lasciato l'incarico. Tal che è dura a morire la leggenda dei traslochi degli inquilini del Viminale, accompagnati, fino a qualche anno fa, da quintali di carte da portar via, a futura memoria e discolpa da scandali e intrighi a scoppio ritardato.

A dispetto della sua intestazione, infatti, l'Interno ha sempre avuto una consistente propaggine esterna e una sorta di doppio comando, in cui la parte più alta della struttura doveva barcamenarsi tra le esigenze politiche del responsabile «pro-tempore» italiano e la fedeltà di sempre all'alleato straniero, gli americani che negli anni della guerra fredda, ma anche dopo, consideravano l'Italia una sorta di protettorato e il responsabile dell'Ufficio Affari Riservati Federico Umberto D'Amato, un prefetto con la passione del grand-gourmet, un loro diretto dipendente.

Il Vaticano che non ha mai rinunciato alla sua «informale» tutela. I vari pezzi del mondo arabo tra cui solo il mitico colonnello Stefano Giovannone sapeva districarsi. Per questa ragione, pur trattandosi di una delle poltrone più importanti di ogni governo, quella del Viminale non è stata mai troppo ambita, ed anzi veniva assegnata, già in anni lontani, quasi per esclusione.

Ai tempi della Prima Repubblica la regola non scritta era che dovesse toccare esclusivamente a un democristiano, scelto tra i titolari delle correnti o sottocorrenti minori, quelli che, con un piccolo pacchetto di voti congressuali, erano in grado di determinare la scelta del segretario.

A rileggerla così, seppure con qualche approssimazione, quella dei responsabili del Viminale è essenzialmente la storia delle vittime di una pubblica, enorme organizzazione, sostanzialmente acefala e fatta di corpi separati sovente in lotta tra loro. Una volta si diceva che il Viminale era l'incrocio tra Sud, Stato e Dc, anche se nessuno era in grado di spiegare quale fosse l'azionista più importante.

Tolta la stagione dell'Antimafia, la sola in cui la consapevolezza del rischio si sia diffusa tra le stanze del vecchio palazzone umbertino - creando una nuova generazione di poliziotti e manager abituati al gioco di squadra, in pratica una rivoluzione - i ministri di ogni tempo, a sedere su quella poltrona, accanto al centralino simbolico e monumentale che collega ogni branca del potere, ci hanno rimesso qualcosa, quando non l'intera carriera.

Perfino Mario Scelba, il «ministro di polizia» per antonomasia, protagonista della pesante stagione (1947-'53) di repressione anticomunista del Dopoguerra, pagò il prezzo di quella durezza con una prematura uscita di scena e solo un brevissimo passaggio alla Presidenza del consiglio, il classico «promoveatur ut amoveatur».

Tra i siciliani, scelti con la caratteristica di essere aghi della bilancia degli instabili equilibri democristiani, non andò meglio a Franco Restivo, ministro tra il 1969 e il 1972, in tempo per beccarsi la bomba di Piazza Fontana, l'inizio delle stragi e del terrorismo e le accuse di aver provocato le une e l'altro in forza di una «strategia della tensione» da scaricare sulle spalle di «opposti estremismi», che sarebbero serviti a consolidare il dominio della Dc. Quanto ci fosse di italiano e di genuina mente dc, in questa cosiddetta «strategia», e quanto di importato dall'estero, si sarebbe scoperto qualche anno dopo. E molto è ancora da scoprire.

In qualche modo, la conferma di tutto ciò è la quinta o la sesta inchiesta su Moro, nata pochi giorni fa dalle rivelazioni della presenza molto mattutina, e prima della tragica scoperta, del ministro Francesco Cossiga il 9 maggio '78 in via Caetani, dove il corpo dello statista era stato lasciato dai carnefici brigatisti che avevano eseguito la «condanna a morte».

Il sequestro e l'assassinio del leader dc, i 55 giorni scanditi dalla grottesca serie di prove di inefficienza, la seduta spiritica che rivela il covo (che non verrà mai trovato) delle Br in via Gradoli, la presunta estrema unzione data dal sacerdote don Mennini al «condannato» nella «prigione del popolo», oltre naturalmente alla presenza, nelle stanze del Viminale, dei misteriosi «esperti americani», costituiscono l'esempio più lampante dell'identità ambigua del nostro sistema di sicurezza.

Pur provenendo dalla corrente più filoamericana della Dc, i «pontieri» (in cui aveva militato anche Paolo Emilio Taviani, suo illustre predecessore dal 1962 al '68, e organizzatore della rete paramilitare segreta di volontari anticomunisti «Gladio»), Cossiga dovette dimettersi. Ma un po' ministro dell'Interno, appassionato di trame oscure e di misteriosi intrecci spionistici, rimase fino alla fine.

Oscar Luigi Scalfaro incappò nel '93 nello scandalo dei «fondi neri» del Sisde, in piena «rivoluzione italiana», quand'era al Quirinale. Rimase memorabile il suo «non ci sto», pronunciato a reti unificate, per reagire all'impiccio che gli era stato costruito attorno - una storia di corruzione creata da due alti funzionari con un passato nei servizi e due cognomi surreali, Finocchi e Broccoletti. Si scoprì dopo che nei quattro anni, dal 1983 all'87, in cui era stato al Viminale, con Craxi presidente del consiglio, Scalfaro aveva utilizzato una parte modestissima della dotazione riservata al ministro anche per mandare qualche vaglia a un convento di suore.

In tempi più recenti, con il crollo della Prima Repubblica e l'avvento della Seconda, anche l'esclusiva democristiana sul ministero venne meno. Ma dei non-dc, il solo che sia uscito indenne da quelle stanze è Giorgio Napolitano, il primo comunista a sedere al Viminale nel 1996, di cui ancora molti ricordano la serietà e la severità nello svolgere il suo ruolo. Gli altri, chi più chi meno, qualche cicatrice come ricordo se la sono portata dietro.

Roberto Maroni, nella sua prima esperienza di ministro leghista, nel '94, subiva a tal punto l'oppressione di un ministero popolato al novanta per cento da personale meridionale, che si era trincerato in un angolo del palazzo e comunicava solo con i suoi stretti collaboratori, importati dalla Lombardia.

La crisi di governo dopo soli otto mesi impedì un fenomeno di rigetto e la seconda volta, nel 2008, a Maroni andò meglio. Enzo Bianco, un passato repubblicano, da poco rieletto sindaco di Catania, nel 2001, la sera delle elezioni, a urne chiuse, si ritrovò con la gente che protestava accusandolo di non aver consentito a tutti di votare. Una pagina nera, dovuta all'accorciamento degli orari di apertura dei seggi.

Anche Beppe Pisanu, che doveva simboleggiare il gran ritorno dei democristiani al Viminale, incorse in un incidente elettorale. Succeduto bruscamente a Scajola, dimissionario per l'infelice gaffe sul giuslavorista Marco Biagi ucciso dalle Br, nel 2006, la sera dello spoglio delle schede, si presentò a Berlusconi a notte fonda, annunciandogli la vittoria. Due ore dopo il Cavaliere apprese di aver perso per 24 mila voti.

Sia chiaro, la storia di Alma Shalabayeva e della figlia innocente, espulse dopo un inutile blitz con cinquanta uomini e un pasticcio burocratico che ha costretto il governo a una ignominiosa marcia indietro, rimane inammissibile. A leggere le ricostruzioni - e speriamo che Alfano giovedì alla Camera sia in grado di portare qualche argomento più convincente -, si fatica a credere a quel che sarebbe accaduto.

Ma prima di considerare inverosimile che in Italia, a Roma, un'esule a rischio di rappresaglia politica, in quanto moglie di un dissidente, possa essere catturata come una delinquente e consegnata al regime che la perseguita, senza che siano stati avvertiti né il ministro competente, né il presidente del consiglio, forse la storia emblematica del Viminale repubblicano conviene ripassarsela.

 

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