AL-FINIANI IN TRIONFO - SCHIFANI TIENE FERMO SILVIO MENTRE ANGELINO LO ACCOLTELLA ALLA SCHIENA
Amedeo La Mattina per "La Stampa"
Interno giorno, Palazzo Madama. Tutti i giornali aprono le prime pagine sullo strappo di Alfano che vota la fiducia mentre Berlusconi passa all'opposizione. Si apre l'assemblea dei senatori Pdl e si va alla conta. Il grande capo arriva mogio e assonnato: aveva fatto notte a Palazzo Chigi con un Angelino arrembante con i guanti di velluto. Parla e fa capire che forse è meglio riflettere bene sul voto di sfiducia, ci sono pro e contro, non bisogna spaccare il partito, in effetti i dissidenti (non usa più il termine «traditori») non sono gli 8-12 che gli aveva assicurato Verdini, sbagliando per la prima volta nella sua vita i conti. Del resto li aveva chiamati al telefono uno a uno e aveva capito che tirava un'ariaccia.
Si apre il dibattito e volano subito i falchi. Denis Verdini si arrampica sugli specchi per giustificare i suoi numeri sbagliati, ma comunque bisogna tenere duro perché «quelli non vanno da nessuna parte, fanno la fine di Fini». Nel volo si distingue Bondi : «Presidente, noi vogliamo solo il tuo bene, ma se votiamo la fiducia è la tua fine e quella del centrodestra». L'avvocato Niccolò Ghedini insiste nella strana tesi che da capo dell'opposizione Berlusconi sarebbe più tutelato dalle aggressione giudiziarie, «chi potrebbe arrestarlo? Sarebbe uno Stato di polizia».
Si fanno coraggio le colombe, dicono che far cadere il governo significherebbe essere accusati di tutti i mali economici e finanziari del mondo. Il dibattito si infiamma, si urla, le voci si sovrappongono, ad alimentare la tensione piomba una dichiarazione di Formigoni che anticipa la formazione del gruppo parlamentare dissidente tenendosi stretto il nome Pdl.
Schifani, che ha lavorato duro per la tessitura («ieri notte ho dormito solo 4 ore») si mette le mani ai capelli. Berlusconi ha un travaso di bile, capisce che gli vogliono portare via il partito e il finanziamento pubblico. Pitoni e pitonesse zittiscono le colombe, il Cavaliere chiama il time out e mette ai voti la decisione su cosa fare. L'Ok alla sfiducia passa 27 a 24. Votano in 51, gli altri 40 senatori sono assenti. à un bruttissimo segnale.
Berlusconi è tormentato dai dubbi, capisce di essere finito in minoranza e deve uscire dall'angolo. Ha mezzo mondo contro. Anche Famiglia Cristiana lo sbertuccia e con un gioco di parole titola «la retromarcia su Roma» del Cavaliere, che sarebbe diventato «diversamente alfaniano».
Forse è ancora troppo presto per considerar Berlusconi un cadavere politico, addirittura un seguace di Angelino in un acrobatico ribaltamento di ruoli che vedrebbe il leader carismatico del centrodestra accodarsi al suo ex delfino. Eppure qualcosa di veramente acrobatico è avviene nella mente pirotecnica dell'ex premier tra mezzogiorno e l'una di ieri.
à nella stanza del capogruppo Schifani che compie il triplo salto mortale. Bonaiuti gli fa presente che così si va verso il disastro. Paolo Romani è d'accordo, e lo sono anche Altero Matteoli e Maurizio Gasparri. Cercano di convincere il capo a cambiare rotta, approfittando dell'assenza dei Ghedini e Verdini.
A un certo punto tutti vanno via e rimangono il Cavaliere e Schifani. Dice il capogruppo: «Presidente, guarda che io non me la sento di andare in aula e fare una dichiarazione di voto per la sfiducia. Ti prego di esimermi da questo incarico». Intanto squilla il telefono. La segretaria della presidenza del gruppo passano una telefonata all'ex premier. Dall'altro capo del telefono c'è Fedele Confalonieri che supplica Berlusconi a non fare questo passo falso.
Un'altra telefonata, questa volta è Barroso, presidente della commissione europea, «Silvio, non ti assumere questa responsabilità ». Squilla ancora il telefono e sono il presidente della Confindustria Squinzi e quello della Concommercio Sangalli. Il Cavaliere capitola. Chiede a Bonaiuti di chiamare Alfano che sta in aula. Arriva Angelino, gli comunica la decisione: «Andrò io a parlare in aula e dirò che votiamo la fiducia, ma tu mi devi promettere di non spaccare il partito e di non avallare la formazione di altri gruppi».
Per il segretario è la vittoria, ma sa quanto è difficile mantenere la promessa di tenere unito il Pdl. Il partito se lo vuole prendere, dettare la linea, mettendo in gabbia i falchi. Se non ci riuscirà , allora sarà scissione.







