
“SENZA HOLLYWOOD E I MITI USA VINCERANNO LE DITTATURE” – LA LEZIONE DI JOSEPH NYE, IL DOCENTE DELLA HARVARD UNIVERSITY E UOMO DI GOVERNO AMERICANO, CHE INVENTO' IL "SOFT POWER" SCOMPARSO MARTEDÌ A 88 ANNI: “DURANTE LA GUERRA FREDDA AD ATTRARCI LE SIMPATIE, ERANO IL JAZZ E IL ROCK, I PEANUTS DI CHARLIE BROWN” - FU IL PRIMO A CAPIRE CHE LE GUERRE SI COMBATTONO CON LA MORAL SUASION E NON SOLO CON LE ARMI: “SOFT POWER NON È UNA PAROLACCIA, RESTA LA SOLA STRADA”
Gianni Riotta per “la Repubblica” - Estratti
Al Century Club, leggendario ritrovo di intellettuali di New York, sulla Quinta Avenue, l’ambasciatore Usa a Roma Dick Gardner lamentava qualche anno fa, fra saloni di libri e quadri antichi,
che «in Europa, il movimento degli studenti nel 1968 era animato da sentimenti antiamericani» per sentirsi obiettare dallo scrittore italiano Furio Colombo «Dick, i ragazzi, a Parigi e a Roma, avevano i jeans, cantavano con Joan Baez e Bob Dylan, criticavano il presidente Nixon ma sognavano la California, come i Mamas & Papas».
Quando raccontai di quel dialogo a Joseph Nye, il docente della Harvard University e uomo di governo americano scomparso martedì a 88 anni, la reazione fu divertita:
«Certo! Questo è il mio soft power! Durante la Guerra fredda i missili nucleari tenevano lontana la minaccia del Cremlino, ma ad attrarci le simpatie, al di là del Muro di Berlino, erano i capelli lunghi, il jazz e il rock, le borse di studio Fulbright, i Peanuts di Charlie Brown».
Nell’annunciare la morte di Nye, la sua università, il Dipartimento di Stato dove lavorò come sottosegretario con il presidente Carter dal 1977 al 1979, come capo del Consiglio per l’intelligence, lo spionaggio, e poi come sottosegretario alla Difesa con il presidente Clinton dal 1993 al 1995 e infine come consigliere di Obama e del ministro degli Esteri Kerry nel 2014, tutta Washington e i think tank ricordano lo slogan celebre del professore-politico: il soft power.
(...) Nye individuava la cultura popolare, i diritti, le scuole, i trend di moda come forza di attrazione globale.
Sicuro che «quando uno Stato riesce a orientare la volontà di altri Stati, affinché desiderino ciò che esso stesso auspica, possiamo parlare di potere cooptativo, o soft power, in contrapposizione al potere coercitivo o di comando, fondato sull’imposizione di comportamenti altrui secondo la propria volontà».
Mentre i grandi quotidiani affollano le homepage con i titoli sul primo papa Usa, Leone XIV, sembra una beffa amara che si calcolino i morti in Kashmir fra India e Pakistan, potenze atomiche, che a Gaza e in Ucraina trincee e bombardamenti raccolgano vittime da anni e che il presidente Donald Trump cancelli il soft power del commercio internazionale, per la sua, per ora poco proficua, crociata dei dazi.
Il soft power sconfitto dall’hard power, il potere grande e terribile delle armi.
Joseph Nye contrastò, fino agli ultimi giorni, la deriva isolazionista di America First, la rottura con gli alleati storici, l’abbandono del Sud globale, i Paesi terzi, all’egemonia della Cina, una politica estera fatta di muscoli e troll violenti sui social media. Fino al saggio redatto per il Financial Times, solo l’otto marzo scorso, in cui affermava risoluto: «Le relazioni internazionali sono una questione di politica di potenza. Come scriveva Tucidide più di duemila anni fa, i forti fanno ciò che vogliono e i deboli subiscono ciò che devono. Tuttavia, il potere non si fonda solo su bombe, proiettili e coercizione economica.
Il potere è la capacità di influenzare gli altri per ottenere i risultati desiderati, e ciò può avvenire tanto tramite l’attrazione, quanto mediante la forza o il denaro. Poiché questa attrazione — il soft power — raramente è sufficiente da sola, i leader possono trovare il potere duro più allettante. Ma nel lungo periodo, è spesso il potere morbido a prevalere. L’Impero romano si fondava non solo sulle sue legioni, ma anche sull’attrattiva della cultura romana. Il Muro di Berlino non è crollato sotto il fuoco dell’artiglieria, ma sotto i colpi di martelli e bulldozer manovrati da persone che avevano perso fiducia nel comunismo ed erano attratte dai valori dell’Occidente».
Era l’ultimo manifesto orgoglioso, rivolto a Trump come ai democratici che Nye aveva servito sotto tre presidenti, la certezza che il dominio assoluto di un secolo fa non è più possibile, ma che rinunciare al sogno americano di diritti e crescita democratica non è solo il tradimento dei padri fondatori, è la débâcle davanti alle autocrazie.
Nye era gentile, generoso, aperto con studenti e colleghi. Quando Einaudi pubblicò il suo saggio del 2002, Il paradosso dell’Impero americano, le macerie del World Trade Center, abbattuto dall’odio fondamentalista di Bin Laden, erano ancora in cenere e il presidente Bush figlio, circondato da falchi neoconservatori, si illudeva che la guerra in Afghanistan e Iraq rottamasse il soft power.
Testardo, Nye propose invece un’agenda ibrida di cultura e difesa, lui esperto di reti di spionaggio e armi nucleari consapevole che senza Hollywood, le università Ivy League che Trump osteggia, i miti Usa, lo scontro di civiltà vedrà infine la vittoria delle dittature. Mi chiamò a sorpresa a New York, proponendomi di scriverne l’introduzione e scherzava, «Max Frankel me l’ha stroncato sul New York Times, qui tutti pensano ormai che soft power sia una parolaccia, ma resta il nodo centrale: prova a spiegare agli italiani che, anche per voi europei, resta la sola strada».
Aveva ragione e non ha fatto purtroppo in tempo a vedere il primo Papa americano come lui, educato nel soft power della storica università cattolica di Villanova, persuaso che le stelle e strisce non debbano suscitare odio ma fiducia, cardinal Prevost Papa Leone XIV.