sergio romano

STRAPARLANDO CON SERGIO ROMANO - L'ULTIMO COMIZIO DI MUSSOLINI, PUCCINI E I BEATLES PICCINI, DE MITA E GORBACIOV -  "SCONTRO O MEDIAZIONE? SERVONO ENTRAMBI, ALLA FINE OCCORRERÀ SEMPRE TROVARE UN PUNTO DI EQUILIBRIO CHE È FRUTTO DELL'ARTE DI SAPER CEDERE SENZA ARRETRARE TROPPO'' - "IO SNOB? È IL MONDO CHE SI È ABBASSATO NELLA QUALITÀ. PARECCHIO"

Antonio Gnoli

Antonio Gnoli per la Repubblica

 

Ha modi compassati ed eleganti, Sergio Romano. Adusi alle grandi frequentazioni. Mi chiedo se ho di fronte un esemplare in via di sparizione o l' esempio di una tenace sopravvivenza. Mi accoglie nella bella casa milanese con gli occhialini a mezzo naso e uno sguardo che sembra si sia appena sollevato dalla lettura di un giornale o di un libro. Le pareti del salotto sono ricche di illustrazioni in prevalenza orientali.

 

Sergio RomanoSergio Romano

Sono attratto dalla scena di due samurai che si combattono in modo strano: uno fugge, l' altro insegue. Non è detto che chi insegue avrà la meglio. Non è escluso che il " codardo" riservi qualche sorpresa. È vero che l' arte degli stratagemmi ( erano trentasei) vide la luce in Cina, ma il Giappone seppe farne buon uso, legandola alle virtù guerriere: « Quella che vede è una scena di bushido. Due samurai, probabilmente di alto rango, cavalcano in sella ai loro destrieri.

Effettivamente non sappiamo chi avrà la meglio. Il che fa pensare alle incertezze del combattimento».

 

Lei crede più allo scontro che alla mediazione?

SERGIO ROMANO CON LINSEPARABILE CUSCINO the beatles

« Probabilmente servono entrambi, ma alla fine occorrerà sempre trovare un punto di equilibrio che è frutto dell'arte di saper cedere senza arretrare troppo. Credo di averlo imparato nei tanti anni trascorsi in diplomazia».

 

Che mondo è stato?

«Un mondo al servizio degli interessi nazionali. Con i suoi riti, alcuni superati. Quando entrai in diplomazia, agli inizi degli anni '50, la classe dirigente era molto nazionalista. Eredi dell' Italia fascista sopravvissero e si incistarono in quella repubblicana. Nella composizione del corpo diplomatico prevalse un' aristocrazia, spesso minore; coloro che non vi facevano parte si comportavano con gli stessi vezzi. Siamo un paese strano».

 

Forse anche ridicolo?

« Un paese che non ha mai completato le proprie guerre civili. Sono tutte puntualmente finite qualche giorno prima che si dichiarasse il vero vincitore».

 

Anche lei era nazionalista?

balcone mussolini

«Un po' sì. Consideravo un sentimento legittimo il fatto che tra i miei compiti ci fosse la difesa della patria. Eravamo dei fedeli servitori. Ciò che oggi ci appare retorico allora era accettato. Solo quando giunsi a Londra nel 1958 cominciai a mettere le cose in una prospettiva che spiegasse meglio quanto era accaduto».

 

Un bagno di democrazia intende?

«Beh, diciamo un mondo più trasparente, nel quale era facile capire le regole del gioco. Quando arrivai c' era un governo conservatore che si era insediato dopo la crisi di Suez esplosa nel 1956».

 

Una crisi che si risolse con uno smacco per la Gran Bretagna.

NATTA E GORBACIOV ct

« Furono le due grandi potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale a dettare le condizioni e le nuove regole internazionali. Francia e Inghilterra erano ormai residui del vecchio colonialismo».

 

L' insegnamento quale fu?

«La Gran Bretagna ha spesso anticipato i grandi eventi della storia europea. La rivoluzione costituzionale, quella gloriosa del 1688 precedette di un secolo la rivoluzione francese. La rivoluzione dei costumi partì da Londra qualche anno prima del Sessantotto parigino ».

 

Anche la Brexit la considera un' anticipazione?

«Ne ha tutta l' aria, ma staremo a vedere».

 

I grandi cambiamenti nell' Inghilterra dei primi anni Sessanta avvennero nella moda e nella musica. Come li accolse?

GORBACIOV E MARGARETH THATCHER

« Il cambiamento era iniziato già con il cinema e il teatro e poi si estese agli altri consumi culturali. Quando andai via, nel 1964, i Beatles non erano ancora quel fenomeno globale che sarebbe diventato nel giro di poco. Confesso che non ne ho mai compreso la grandezza e forse è un limite. Ma per un appassionato di Puccini era dura accettare quella rivoluzione».

 

A proposito di "rivoluzione", so che giunse a Parigi in pieno Sessantotto.

«Arrivai a Parigi il 10 maggio, per ricoprire il ruolo di vice ambasciatore. Il numero uno era Francesco Malfatti. All' inizio quella discesa nelle strade da parte degli studenti mi sembrò una grande festa. Ricordo molti intellettuali e artisti schierarsi dalla parte degli studenti. Jean- Louis Barrault offrì il teatro Odeon, di cui era direttore, per i dibattiti. Gli studenti decisero invece di occuparlo. E André Malraux, ministro della cultura, licenziò in tronco il grande attore. La festa finì».

 

Sessantotto manifestazione

Lei com' era da studente?

«Apparentemente molto normalizzato: liceo classico e poi facoltà di Legge. In realtà non avevo ben chiaro cosa avrei fatto nella vita».

 

Da che famiglia proveniva?

VITTORIO EMANUELE III E MUSSOLINI

«Mia madre era figlia di piccoli commercianti ortofrutticoli, mio padre, provenienza borghesia rurale, divenne col tempo amministratore delegato del biscottificio Saiwa. Da Vicenza ci trasferimmo a Genova e poi nel 1944, quando le cose si fecero dure per via della guerra, andammo a Milano. Ricordo che nel dicembre di quell' anno, mentre mi avviavo a casa, vidi passare una macchina scoperta e riconobbi Mussolini. Tornava dal suo ultimo discorso tenuto al teatro Lirico. Quell' immagine fugace fu come un' ombra che attraversò il mio sguardo».

 

Era l' inizio della fine.

proeteste studentesche del \'68

«Il duce tentò l' ultima riscossa. Gli restava soltanto l' inconfondibile mimica. Niente altro. Le cronache riferirono di gerarchi e stretti collaboratori che si preparavano a cambiare casacca. Fu un anno, il 1944, di macerie, morti e distruzioni. Per me fu anche il periodo in cui scoprii la bellezza del teatro. Per via del coprifuoco le compagnie recitavano soltanto il pomeriggio».

 

Aveva ambizioni da attore?

«In realtà volevo scrivere. Conobbi Mario Bonfantini, partigiano in Val d' Ossola, professore di francese e fratello di Corrado che era stato comandante delle Brigate Matteotti. Mario scriveva per il Mondo nuovo. Divenni un po' il suo ragazzo di bottega, lo aiutai nella sceneggiatura del Mulino del Po, anche se il ruolo preponderante il regista Alberto Lattuada l' aveva affidato a Fellini. Era il 1948, avevo anche cominciato a scrivere per il Popolo, allora diretto da Mario Melloni ».

 

Mario Melloni

Melloni sarebbe diventato il celebre "Fortebraccio": che ricordo ne ha?

«Non mi sarei aspettato una "conversione" così netta in un democristiano. Ma aveva una solidità di carattere e una coerenza testimoniata anche dal fatto che fu uno dei pochi che rifiutò la tessera del fascismo. Come corsivista all' Unità inventò a suo modo un genere politico, in cui satira e intelligenza si mescolavano perfettamente».

 

Lei di cosa si occupava?

MASTELLA DE MITA

«Al giornale avevo cominciato con la cronaca nera, in seguito sarei passato ad occuparmi di cinema e teatri. Cominciai anche a scrivere sulla rivista Sipario creata da Valentino Bompiani, che aveva tra i collaboratori Montale, Moravia, Savinio, D' Amico. Era un osservatorio prezioso e autorevole per il mondo dello spettacolo. Quell' anno feci il mio primo importante viaggio a Parigi. Bompiani mi mise in contatto con Giacomo Antonini, uno degli scout della casa editrice. Viveva da anni in Francia e fu grande la sorpresa quando il suo nome venne ritrovato in una lista dell' Ovra, come collaboratore».

 

Si disse che era stata una spia del regime e che forse contribuì alla morte del fratelli Rosselli.

«Non c' erano prove dirette in tal senso, so che Moravia si ispirò a lui quando scrisse dove appunto si parla di un agente dell' Ovra che partecipa all' omicidio dei Rosselli. Ricordo questo aristocratico veneziano, amico di molti scrittori italiani e francesi. Conosceva tutti, da Montherlant a Sartre. Era amico di Jean Giono. Come pure molto legato ad alcuni scrittori italiani, tra cui Moravia e soprattutto Mario Soldati. Fu un periodo curioso per me».

 

In che senso?

«Dovevo decidere cosa avrei fatto della mia vita. Parigi era un luogo promettente; l' Italia un po' meno. Non sapevo se continuare a fare il giornalista. Andai per la prima e l' ultima volta nel 1951, come critico cinematografico, al Festival di Berlino. Poi ebbi una fellowship per gli Stati Uniti. Mi sentivo a un bivio della vita. Decisi perciò di sparigliare approdando all' Università di Chicago».

 

sergio mattarella e ciriaco de mita

A fare che cosa?

«L' università era celebre per la sua scuola di economia, ma preferii frequentare i corsi di scienza della politica, in particolare quello tenuto da Hans Morgenthau, un insegnante tanto bravo quanto antipatico. Emigrato dalla Germania, allievo di Max Weber, fu l' erede di una visione realista della politica. Stetti un anno a Chicago e ricordo una città molto viva, dove c' erano le migliori case editrici d' America e dove si potevano fare gli incontri più interessanti. C' era Enrico Fermi che però non ho mai incontrato e Arnaldo Momigliano, grande storico dell' antichità spesso in dialogo con Leo Strauss. Quando sembrava che l' università sarebbe stato il mio approdo naturale, il console generale mi suggerì di provare il concorso diplomatico».

 

Perché accettò il consiglio?

renzi de mita

«L' anno trascorso a Chicago, l' insegnamento di Morgenthau e soprattutto il suo sguardo sulle relazioni internazionali mi convinsero di poter avere qualche chance nel mondo della diplomazia. Tornai a Roma nel settembre del 1953 e nel 1954 entrai in diplomazia. Il mio primo incarico fu come vice console a Innsbruck».

 

La sua è stata una carriera molto ricca che si è conclusa con una sorta di "licenziamento" nel periodo in cui era ambasciatore a Mosca. Cosa è accaduto?

«Fui congedato, in realtà. Mi dissero che dovevo andarmene e mi offrirono il posto di ambasciatore per l' Unesco Ma per gli incarichi che avevo ricoperto nella carriera diplomatica mi sembrava un netto . ridimensionamento».

 

Chi la costrinse ad andarsene?

«Fu l' allora capo del governo Ciriaco De Mita. Non mi voleva come ambasciatore a Mosca perché era convinto che la rivoluzione operata da Gorbaciov fosse in qualche modo favorevole alla sua idea di compromesso storico. Mentre il mio giudizio su Gorbaciov era molto negativo».

 

Cosa non le piaceva della sua politica?

«Non capivo in che modo pensava di ottenere quello che si era posto come obiettivo. Il problema di come si potesse uscire dal comunismo era enorme come altrettanto grande era il modo in cui si sarebbe entrati in una società del libero mercato. Non avevamo ancora l' esempio cinese. Gorbaciov si limitò a enumerare dei programmi senza dare le soluzioni. Parole affascinanti ma in totale libertà».

 

Ma il suo compito non era di agevolare certe possibili soluzioni? Obbedire ai dettati di Roma?

putin trump

«In quella circostanza il mio non poteva essere un problema di obbedienza o disciplina. Il problema semmai era se dovevo dire la verità, per quanto fosse la mia verità, oppure raccontare quello che piaceva sentirsi dire. Mi trovavo in una buffa ma anche drammatica situazione. Mosca era una città vivacissima. Arrivavano da tutta Europa e ovviamente anche molti industriali italiani. Cosa avrei dovuto raccontargli? Che tout va très bien, madame la Marquise? Il mio compito era di spiegare loro la situazione. Alla fine ho preferito abbandonare la carriera diplomatica. Tornando in parte al vecchio amore del giornalismo e ai libri».

 

A proposito di libri i suoi due ultimi, pubblicati da Longanesi, sono dedicati a Putin e Trump. Cosa rappresentano oggi i due uomini più potenti del pianeta?

donald trump e vladimir putin si stringono la mano con juncker photobomb

« Dietro Putin vedo tante cose storte, ma anche il dramma di chi ha vissuto la disgregazione dell' impero. Da nazionalista e fuori dai vincoli ideologici del comunismo ha vissuto il crollo dell' Urss come una catastrofe geopolitica. Ed è per questo che vorrebbe ricostruire lo Stato della Grande Russia, affidando un ruolo non trascurabile all' ortodossia. C' è molto pragmatismo nella sua politica. Quanto a Trump è un enigma assai pericoloso. Mi chiedo ancora perché sia stato votato».

 

Si è dato una risposta?

« Mi sembra il frutto di tutta la paccottiglia americana - istanze religiose e neo-isolazioniste - che è stata risvegliata da certi effetti brutali dell' economia globale. Entrambi, sia Putin che Trump, hanno un potere immenso, in un mondo che ha perso il centro».

 

Del potere lei è stato un mediatore. Le manca quel ruolo?

FARNESINA

« Per niente. Anche se devi conoscerlo e viverlo, il potere, se ne vuoi parlare con competenza».

 

C' è qualche costante nel potere italiano?

«L' alto grado di rissosità. Il nostro è un potere fortemente litigioso con risultati modesti. Tra le ragioni l' assenza di una borghesia, salda e riconoscibile».

 

Eppure lei fa di tutto per riconoscersi nel ruolo del borghese doc.

«Credo che la vita sia un problema di soluzioni personali. È vero, continuo a essere un buon borghese. O magari mi illudo. Ma non mi pongo il problema di quanto oggi la borghesia italiana sia in declino.

Mi può interessare da storico, non in quanto corporazione».

 

C' è più vanità o snobismo in questa difesa?

«La vanità di classe è deprecabile, lo snobismo lo trovo in qualche modo indispensabile».

 

È un modo per essere fuori dalla storia?

« Più che esserne fuori, esserne immuni. Il mondo si è parecchio abbassato nella qualità: di pensiero, di giudizio, di comportamento. Se snob è mettersi al riparo da tutto questo ben venga lo snobismo » .

 

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