TU QUOQUE, GIORGIO? “LIBERO” SBERTUCCIA SCALFARI: IL CROLLO DELLE ILLUSIONI, NON SARÀ SENATORE A VITA

Francesco Borgonovo per "Libero"

Agosto è il più crudele dei mesi, e si perdono nelle nebbie della storia i giorni in cui, poco più d'un anno fa, Eugenio Scalfari s'incamminava lungo il viale che conduce a Castel Porziano per rendere omaggio a Giorgio Napolitano. Allora, la natura era radiosa, e amica anche. «Un cinghialotto ci passa davanti e scompare nel folto del bosco», scriveva Barbapapà travolto dall'ispirazione georgica. «Sulle strisce di prato ai lati del viale saltella qualche merlo e un'upupa, "ilare uccello", cammina impettita con la piccola cresta sul capo».

E i lettori tutti, ammirati da tale poesia, si domandavano di che sostanza fossero composte le «strisce» del prato e se non fossero, a ben vedere, illegali. Ora l'ilare upupa ha abbassato la cresta, l'arzillo cinghialotto non saltella più: lo arrostiscono i pastori e i loro fuochi non bastano ad illuminare quella che per Scalfari è la notte più scura di tutte. Il presidente della Repubblica ha nominato quattro senatori a vita e tra questi non c'è il Fondatore del quotidiano che si chiama, appunto, Repubblica (e solo per questo un minimo di riconoscimento lo avrebbe meritato, che diamine).

Mesi e mesi di sforzi, di lotte senza quartiere, di zerbinaggio al limite dell'umana dignità non son bastati a Scalfari per vedersi garantito l'agognato scranno. A lui che è il decano dei direttori, Re Giorgio ha preferito un altro direttore, Claudio Abbado. Con la motivazione che Abbado dirige un'intera orchestra, mentre Scalfari in vita sua ha diretto soltanto tromboni.

Eppure ci aveva creduto, Eugenio. Un minuto dopo la morte di Sergio Pininfarina, gli era balenata in mente l'idea. Quando è mancata pure Rita Levi Montalcini, sulla nomina a senatore a vita ci aveva già messo l'ipoteca. Praticamente aveva già avvisato parenti e amici e ordinato le tartine e il Krug per festeggiare. Colui che in un libro si è definito «l'uomo che non credeva in Dio», aveva invece fatto professione di fede assoluta in Napolitano.

Affinché i suoi desideri fossero chiari anche ai sassi, Scalfari aveva acquistato una bella divisa da corazziere, con tanto di elmo e spadone, e si era trasformato nel più strenuo difensore del Colle, costasse quel che costasse. Si era fatto piacere Mario Monti e il suo governo raffazzonato, e aveva pure imposto al suo giornale di crederci (non sempre ascoltato).

A dargli manforte erano giunti i responsabili della celebre collana dei «Meridiani» Mondadori, che gli dedicarono un volume. Probabilmente si trattò di un grossolano errore: credevano che fosse già defunto. A un certo punto, la devozione scalfariana per Napolitano raggiunse vette imbarazzanti, da attrazione erotica. Rispolverata la divisa del Guf e il moschetto di quand'era giovane (nel cretaceo, più o meno) Eugenio si mise a sparare contro chiunque osasse levare una voce contro il Colle. Perfino quando si trattava dei suoi compagni di merende.

Arrivò a provocare una guerra intestina nella redazione di Repubblica. Tutto ebbe inizio con un Ingroia galeotto che auscultava le conversazioni del capo dello Stato nel corso delle indagini sulla trattativa Stato-mafia. Il Fatto lanciò un appello a sostegno dei giudici di Palermo e, onta massima, lo firmarono persino alcuni illustri collaboratori del giornale di Scalfari: Barbara Spinelli, Stefano Rodotà, Franco Cordero e Gustavo Zagrebelsky. Un ammutinamento, in sostanza. Barbapapà era indignato.

Prima si cimentò in una gara a chi ce l'aveva più lungo (l'articolo) con Marco Travaglio, avventurandosi nei meandri della giurisprudenza per dimostrare che un presidente della Repubblica non va nemmeno sfiorato. E Travaglio ogni volta gli rispondeva con argomentazioni uguali e contrarie. In due, decimarono a mezzo stampa ettari ed ettari di bosco, alla faccia delle specie protette.

Poi l'Eugenio inviò a Zagrebelsky una lettera indignata, in cui lo rimproverava, in sostanza, di essere un fesso poiché aveva dato ascolto alle sirene del Fatto. I luminari della psichiatria ancora perdono il sonno a studiare quelle carte, primo indizio della cosiddetta sindrome di Scalfari-Zagrebelsky, incurabile.

I sogni di Barbapapà s'infransero quando Napolitano, verso la fine del settennato, dichiarò alla Stampa che non avrebbe nominato altri senatori a vita. Eugenio quasi ebbe un coccolone. Il focherello della speranza riprese ad ardere quando Re Giorgio decise di replicare. Scalfari raccolse il moschetto e ritornò in trincea. Sul palco della festa di Repubblica, si produsse in un'intervista a Napolitano tanto gravida d'amore da essere considerata, in alcuni Paesi, molestia sessuale.

Poi l'intervista fu raccolta in volume, e qui siamo allo stalking. Appena uno nominava il presidente, ecco accorrere a dorso di mulo Scalfari, lancia in resta. Quando Libero, per primo, ventilò l'ipotesi della grazia per Berlusconi, Eugenio s'improvvisò esegeta del Colle e ci definì«gente che gioca a palla con le istituzioni, anarcoidi di infima qualità».

Poi corse dall'amico Giorgio a rimboccargli le coperte. La signora Clio cominciava a essere un po' gelosa. E adesso? Napolitano nomina quattro persone e per Scalfari non c'è nemmeno una seggiolina nella portineria di Palazzo Madama. Eppure Eugenio avrebbe dovuto saperlo, visto che il suo giornale l'ha teorizzato per anni, e Napolitano alla fine avrà pure recepito il messaggio: uno può anche farsi un'amante, ma portarla perfino in Senato no, non si fa. E l'upupa, mesta, torna al proprio nido. Il cinghialotto arrostisce sulla brace. La sua carne tenera ha il sapore amaro della sconfitta.

 

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