UN UOMO SISDE-MATO - DOPO OTTO ANNI DI CARCERE, BRUNO CONTRADA TORNA LIBERO - L’EX NUMERO 3 DEI SERVIZI FU INDICATO DAI PENTITI COME UNA DELLE “TALPE” CHE AVREBBE AIUTATO “COSA NOSTRA” A DRIBBLARE BLITZ E INDAGINI, PERMETTENDO LA FUGA DEI LATITANTI, COME TOTÒ RIINA - I SOSPETTI SU DI LUI DI FALCONE E BORSELLINO, CONVINSERO I GIUDICI PIÙ DELLE PAROLE DI STIMA DEI CAPI DELLA POLIZIA, PREFETTI, QUESTORI, CARABINIERI…

Alessandra Ziniti per "la Repubblica"

Il decreto di scarcerazione con su scritto "fine pena" arriva in via Maiorana alle quattro del pomeriggio. Davanti la modesta casa popolare in cui Bruno Contrada ha trascorso gli ultimi quattro anni in detenzione domiciliare c'è da ore una piccola folla di giornalisti. Lui guarda dalla finestra al terzo piano e dice alla moglie: «Perché tutta questa gente? Mica mi hanno assolto, ho solo finito di scontare la pena». Dieci anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, quattro trascorsi in carceri militari, quattro agli arresti domiciliari per gravi motivi di salute, gli ultimi due "scontati" per buona condotta.

Ma di anni, da quando, alla vigilia di Natale del 1992, l'allora numero tre del Sisde che dava la caccia a Bernardo Provenzano fu arrestato, ne sono passati venti e oggi quello che era uno degli uomini di punta dell'investigazione italiana è un vecchio di 81 anni, lunghi capelli bianchi, barba incolta, occhi dallo sguardo vuoto nel viso incavato, che si appoggia al bastone per fare quattro passi e stringe avidamente, quasi grato per la loro presenza, le mani di quei cronisti che vent'anni fa lo inseguivano per strappargli una notizia. «Grazie, grazie davvero, per non avermi dimenticato».

Poi, strabuzza gli occhi che vedono a stento, e dice: «Io sono innocente, sono stato arrestato, condannato, incarcerato ingiustamente. Non odio nessuno ma sono certo che prima o poi verrà il giorno, e io probabilmente non ci sarò più, in cui verrà ristabilita la verità sulla mia vicenda e allora qualcuno dovrà pentirsi del male che ha fatto a me e alle istituzioni. Perché io sono stato un funzionario della polizia e tutta la polizia di stato ha subito l'onta della mia condanna».

Capo della squadra mobile di Palermo negli anni Settanta, poi della Criminalpol, capo di gabinetto dell'alto commissariato per la lotta alla mafia prima di approdare ai vertici del Sisde, la carriera di Bruno Contrada finì nella polvere quando alla fine degli anni Ottanta alcuni boss di primo piano passarono dall'altra parte della barricata e, da collaboratori di giustizia, fecero il suo nome come una delle "talpe" che - per anni - avrebbe consentito a Cosa nostra di conoscere in anticipo le mosse di magistratura e forze dell'ordine, bruciando blitz e indagini e consentendo la fuga di diversi latitanti, Totò Riina compreso.

Tommaso Buscetta, Salvatore Cancemi e per ultimo Gaspare Mutolo furono implacabili nei suoi confronti. È proprio Mutolo a raccontare di quell'incontro con Contrada al Viminale che sconvolse Paolo Borsellino pochi giorni prima di morire: la collaborazione di Mutolo era segretissima ma Contrada già lo sapeva.

Le dichiarazioni dei pentiti, unite ai sospetti di alcuni colleghi come Boris Giuliano e di magistrati come Falcone e Borsellino che non si fidavano di lui, convinsero i giudici più delle parole di stima che tanti capi della polizia, prefetti, questori, ufficiali dei carabinieri, vennero a ribadire nelle aule di giustizia. Oggi è anche a loro che va il pensiero di Contrada: «In tanti in questi anni mi sono rimasti vicini».

I primi momenti di libertà dopo dieci anni si esauriscono tutti in una faticosa passeggiata di pochi metri nel giardinetto sotto casa, insieme al suo avvocato Giuseppe Lipera, per incontrare i cronisti. È provato, malato ma lucidissimo Bruno Contrada, anche se la voce gli si rompe più volte per l'emozione. Ed ogni risposta contiene, pronunciata quasi con solennità, la parola "istituzione".

«La mia vita al servizio dello Stato la rifarei tutta tale equale, senza nessun pentimento e senza alcun rammarico, da quando a vent'anni ho indossato la mia prima divisa, quella da bersagliere. Alle istituzioni ho sempre portato rispetto e fedeltà anche in carcere dove ho educato altri detenuti a sopportare con dignità la pena inflittaci, anche se ritenuta ingiusta. Mi sono sentito sempre un uomo libero, nello spirito, anche dietro le sbarre».

La vecchiaia, il carcere, le malattie non hanno minato lo spirito di combattente di Bruno Contrada che ha un unico desiderio: «Fino a quando avrò un attimo di respiro continuerò la battaglia per ristabilire la mia innocenza. Sulla mia drammatica esperienza ho scritto un libro "La mia prigione. Storia vera di un poliziotto a Palermo", edito da Marsilio.

L'ultimo capitolo è dedicato al mio nipotino Bruno al quale dico: "Tu da bravo nipote devi credere a quello che dice il nonno, ma da cittadino italiano devi giudicare con la tua testa. E tutto sommato è un invito che voglio rivolgere a tutti gli italiani. Io non mi porterò segreti nella tomba, la mia vita è tutta scritta in atti di polizia».

 

BRUNO CONTRADA ESCE DAL CARCEREBRUNO CONTRADA ESCE DAL CARCEREBRUNO CONTRADA NEL 1998BRUNO CONTRADA NEL 1995BRUNO CONTRADA NEL 1992BRUNO CONTRADA NEL 1979

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