L'ESTATE STA FINENDO MA A PESARO ROSSINI CONTINUA A FARE FESTIVAL – MATTIOLI: TRIONFA LA SUBLIME "SEMIRAMIDE", MA SI RIDE CON L’"EQUIVOCO STRAVAGANTE" COSÌ PIENO DI DOPPI SENSI OSCENI CHE LA CENSURA (NAPOLEONICA, NOTARE, NON QUELLA PONTIFICIA) VIETÒ L'OPERA DOPO APPENA TRE RECITE. IL GAETANO GASBARRI CHE FIRMA IL LIBRETTO CI APPARE UN ANTESIGNANO, ANCHE SE DOBBIAMO ANCORA STABILIRE SE DELLA COMMEDIA ALL'ITALIANA PIÙ SCORREGGIONA OPPURE DEL...- VIDEO

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ALBERTO MATTIOLI per la Stampa

 

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L'estate sta finendo e infatti a Pesaro si è concluso anche il Rossini Opera Festival numero 40. XL anche il bilancio. Diamo i numeri: 16.500 presenze, circa il 10% meno dell'anno scorso però fu da record, un milione e 125 mila euro d'incasso, 62% di spettatori stranieri da 36 Paesi e indotto conseguente. Non è affatto vero che con la cultura non si mangia: sapendola fare e sapendola comunicare (a proposito: 167 giornalisti accreditati da 30 Paesi, dall'Argentina all'Oman, e peana dal NYT), con la cultura si banchetta. Il festival insomma "tiene", con qualche perplessità, come si vedrà, sul futuro.

 

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Il consuntivo artistico è molto buono. Il piatto forte, lo si sapeva, era la nuova "Semiramide" superintegrale, non una nota tagliata, benché Rossini qui ne abbia scritte moltissime e quasi tutte di qualità superlativa. È stata, e questo lo si poteva immaginare, la "Semiramide" di Michele Mariotti, che dopo averla diretta a Monaco aveva un unico concorrente, ma pericolosissimo: sé stesso. Bene, si è superato e, molto semplicemente, ha diretto la miglior "Semiramide" di cui si abbia memoria, dischi compresi. Questa edizione sta alle "Semiramidi" future come "Il viaggio a Reims" diretto da Abbado ai "Viaggi" che sono venuti dopo: è quella su cui si valuteranno tutte le altre, anzi, per dirla alla Rossini, la pietra del paragone di ogni futura "Semiramide".

 

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Rispetto a Monaco, Mariotti aveva due atout. Il primo è l'assoluta integralità. Come sempre paradossalmente avviene, una versione tagliata sembra più lunga di quella con tutti i pezzi al posto giusto, e questo è ancora più valido per un kolossal di proporzioni e simmetrie calcolatissime come questo, dove Rossini spinge la sua razionalità fino alla dismisura e alla follia. Secondo, in buca c'era l'Orchestra sinfonica nazionale della Rai, che forse in assoluto è inferiore a quella della Bayerische Staatsoper ma di certo Rossini lo conosce e lo suona meglio.

 

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Così, una compagnia mediamente buona ma senza colossi vocali appare molto migliore di quanto non sarebbe con un'altra bacchetta. Per esempio, non ho mai sentito Antonino Siragusa cantare così bene, in una parte come quella di Idreno che è l'equivalente vocale di volteggiare sul trapezio, e senza rete. Salome Jicia e Varduhi Abrahamyan, rispettivamente Semiramide e Arsace, non hanno un materiale gigantesco né lasciano a bocca aperta per quel che esce dalla loro. Fanno però molto di più: creano due personaggi veri, dove i delirii belcantistici diventano espressivi, svelando i famosi o famigerati "accenti nascosti" che Rossini voleva che ci si trovassero (segno, per inciso, che Mariotti non sa solo dirigere ma anche concertare). Idem per Nahuel Di Pierro, Assur, che pure vocalmente è il più debole.

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Con Mariotti, Graham Vick ha realizzato due degli spettacoli più "storici" del nostro tempo, "Guillaume Tell" appunto al Rof e "La Bohème" a Bologna. Questa "Semiramide" è assai bella ma non allo stesso stratosferico livello. È uno spettacolo molto intellegibile, quasi didascalico, che spiega con simboli immediatamente comprensibili. Non so però se una chiave di lettura psicanalitica come questa, tutta giocata su maternità deluse e complessi di Edipo non risolti, sia la più adatta a un'opera come "Semiramide", dove alla fine il teatro stesso viene trasceso e come cristallizzato in una dimensione astratta e colossale, mitica e volutamente utopica. Vick, azzardo, per dare il meglio ha forse bisogno di testi più connotati sul fronte politico e sociale (come i due "Mosè" - specie il primo - proprio a Pesaro) o delle rotture e dei furori dirompenti del Rossini napoletano (l'"Ermione" sublime di Glyndebourne). Resta il fatto che una regia non completamente riuscita non è una brutta regia; e soprattutto che un Vick "medio" è sempre meglio di quasi tutti gli altri.

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La vera sorpresa del Festival, comunque, è stata "L'equivoco stravagante". Siamo nel 1811 a Bologna, Gioachino non ha ancora vent'anni e gli viene dato un libretto così pieno di doppi sensi osceni che la censura (napoleonica, notare, non quella pontificia) vieta l'opera dopo appena tre recite. La trama si basa sul tentativo di mandare a monte un matrimonio facendo credere allo spasimante che la promessa sposa è in realtà un castrato, bonjour finesse.

 

Però oggi non siamo nel 1811 e così questo Gaetano Gasbarri che firma il libretto ci appare un antesignano, anche se dobbiamo ancora stabilire se della commedia all'italiana più scoreggiona e politicamente scorretta (rispetto a un filmetto con Lino Banfi e Alvaro Vitali manca solo la doccia dell'Edwigiona Fenech) oppure del teatro dell'assurdo, perché certe battute dadaiste sono meravigliose. O magari di tutti e due, mixati nel frullatore del nonsense. Insomma, alla faccia di tutte le censure e del buongusto, si è riso molto. Merito anche della regia della coppia iniqua scaligera Moshe Leiser & Patrice Caurier, che firma uno spettacolo alla fine tradizionale ma con dei fantastici tocchi surreali, oltre che tecnicamente straordinario. Anche Carlo Rizzi, dal podio, sembra più vivace del solito.

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Sul palco, giganteggiano ma non gigioneggiano due "buffi" giovani però di sapori e saperi "antichi" come Davide Luciano e Paolo Bordogna, rispettivamente fidanzato e padre del finto eunuco, davvero uno più bravo dell'altro. Teresa Iervolino, anche lei spiritata e spiritosa, canta benissimo tutta la sera e tutta la parte tranne il rondò, che è come concludere un'ottima cena con un dessert poco riuscito. Poco riuscito come il suo fidanzato vero, il tenore Pavel Kolgatin. Fanno invece un'ottima impressione i due comprimari, entrambi però muniti di aria di sorbetto, Claudia Muschio e Manuel Amati.

 

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Naturalmente il Rof non finiva qui. C'era anche "Demetrio e Polibio", la prima opera scritta dal Gioacigno di Pesaro ma forse non tutta da lui, ripresa nello spettacolo bello e intelligente (non sempre le due caratteristiche coincidono) di Davide Livermore del 2010 e diretta assai bene da Paolo Arrivabeni. La star è Jessica Pratt, che spara sopracuti e roulades come se stesse allenandosi per le Olimpiadi. La si applaude, ma a freddo. Per il teatro, sarà per la prossima volta. Meno spettacolari ma molto più intensi i maschietti, Juan Francisco Gatell e Riccardo Fassi, tenore e basso, e soprattutto il giovin mezzosoprano Cecilia Molinari, elegante, musicale ed espressiva. Si è poi visto il solito "Viaggio a Reims" a uso dei ragazzi dell'Accademia.

 

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Non mi è sembrata un'annata particolarmente fausta, ma segnatevi questo nome, Giuliana Gianfaldoni, soprano, perché ne sentirete parlare; quanto a me, vorrei urgentemente risentirla cantare. Fra i concerti, sentito quello di Angela Meade, oggi probabilmente la voce sopranile più impressionante del mondo. Sa anche cantare, e molto bene, ma non dà sempre l'impressione di capire quel che sta cantando. Per intenderci: il Meyerbeer operistico sì, quello cameristico no; Bellini no e Strauss sì. Certo che nel piccolo teatro Rossini la Meade fa l'effetto di una bomba atomica che esplode in un monolocale...

 

Insomma, per concludere (e anzi grazie di essere arrivati fin qui): il Rof resta il più prestigioso festival operistico italiano e uno dei maggiori del mondo. L'impressione, però, è che non abbia una linea artistica ben definita. Esaurito il recupero delle opere del Divino, perché manca solo il centone "Eduardo e Cristina" che arriverà, pare, nel 2020, imposto in tutto il mondo il "suo" modo di eseguire Rossini come quello doc, cementata una collaborazione fra musicologi e musicisti esemplare, il Rof pare un festival in cerca di una missione, con il rischio, concretissimo, di puntare all'autoconservazione.

l'equivoco stravagante l'equivoco stravagante

 

Oggi più che mai, invece, occorrerebbe osare: sul fronte delle regie, ovvio, ma anche su quello musicale, azzardando magari qualche orchestra con strumenti originali o riflettendo sul fatto che il canto rossiniano non deve restare necessariamente ancorato in saecula saeculorum al canone forgiato dalla gloriosa Renaissance degli Anni Settanta e Ottanta. Il cartellone dell'anno prossimo, con un "nuovo" (si fa per dire) "Moïse" di Pierluigi Pizzi e una nuova "Elisabetta" di Livermore sembra un po' il classico colpo al cerchio e alla botte. Incuriosisce "La cambiale di matrimonio" affidata a due tenori, uno come direttore e l'altro come regista. Di solito, a far danni basta un tenore solo...

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