IL CINEMA DEI GIUSTI – OGGI SCORDATEVI VENEZIA E I FILM DELLA MOSTRA. PERCHÉ QUESTO POCO DECIFRABILE, ARZIGOGOLATO, IPERLETTERARIO, ANCHE FASTIDIOSO, MA SEMPRE IPNOTICO E INTELLIGENTISSIMO “STO PENSANDO DI FINIRLA QUI” DI CHARLIE KAUFMAN È GIÀ IL CASO DELL’ANNO – NON PER TUTTI. AVVERTO. ANCHE PERCHÉ HA LUNGHISSIME SEQUENZE IN AUTO DOMINATE SOLO DA UN DIALOGO FITTO E DALLA NEVE CHE CADE NELLA NOTTE, UN FINALE CHE NON PUÒ NON STUPIRVI, AMMESSO CHE CI ARRIVIATE. E UNA SERIE DI CITAZIONI MEMORABILI MA INFINITE, COME QUELLA…. - VIDEO

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Sto pensando di finirla qui di Charlie Kaufman

 Marco Giusti per Dagospia

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“Gli altri animali vivono nel presente. Gli esseri umani non possono farlo, così hanno inventato la speranza”. Oggi scordatevi Venezia e i film della Mostra. Perché questo è già il caso dell’anno. Anche più di “Tenet” e dei viaggi nel tempo di Christoper Nolan. Sto parlando di questo poco decifrabile, arzigogolato, iperletterario, anche fastidioso, ma sempre ipnotico e intelligentissimo “Sto pensando di finirla qui/I’m Thinking of  Ending Things”, scritto e diretto da un genio della sceneggiatura come Charlie Kaufman, che potete vedere da qualche giorno su Netflix e che ha fatto esplodere i social con commenti di ogni tipo.

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Non per tutti. Avverto. Anche perché ha lunghissime sequenze a due in auto dominate solo da un dialogo fitto e dalla neve che cade nella notte, una lunga parte da horror della Blumhouse, un finale che non può non stupirvi, ammesso che ci arriviate. E una serie di citazioni memorabili ma infinite, come quella dall’Anna Karenina di Tolstoj che per Kaufman è fondamentale: “Tutte le famiglie felici sono uguali, tutte le famiglie infelici lo sono a modo loro”.

 

Tratto da un romanzo del 2016 del canadese Iain Reid, che Kaufman deve aver non poco strapazzato, vede una ragazza, Lucy o forse Luisa o Louise, interpretata dall’irlandese Jessie Buckley, che viaggia col suo fidanzato Jake, Jesse Plemons, verso la casa dei genitori di lui, Toni Colette e David Thewlis. Già nel viaggio capiamo che le cose non saranno facili. Perché lei ha già deciso di farla finita. Con cosa o con chi? Lui le parla dimostrando una sensibilità e una conoscenza non comuni rispetto a quel che pensa lei nel suo dialogo interiore.

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Al punto che può riconoscere una poesia di Wordsworth che lei cita, mentre lei si lancia nella declamazione di una poesia che dichiara sua, anche se poi scopriremo che viene da un libro di poesie di Eva H.D. del 2015. Nel viaggio di ritorno assisteremo a un lungo dibattito su “Una moglie” di John Cassevetes tutto modellato su una celebre critica negativa di Pauline Kael sul New Yorker. Lei, leggiamo, era la critica preferita di Kaufman, ma lui aveva adorato il film e c’era rimasto malissimo proprio perché adorava la Kael.

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Ogni tanto compare un vecchio bidello di una scuola che pulisce le aule vuote e in una scena vede il finale di un finto film romantico americano diretto addirittura da Robert Zemeckis. E Kaufman, scopriamo, ha scritto un film che Zemeckis dovrebbe dirigere, “Chaos Walking”. L’horror si sviluppa ovviamente quando i due arriveranno nella fattoria dei genitori di Jake.

 

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Prima sentiamo una serie di racconti horror di Jake sui maiali della stalla mangiati vivi dai vermi o sulle pecore stecchite nel ghiaccio. Poi assistiamo alla cena con Toni Colette e David Thewlis, tutta sostenuta da Lucy, perché Jake sembra come scomparire nell’ombra di lei. Quando i genitori le chiedono che lavoro faccia, si passa dalla poetessa all’artista all’esperta di fisica quantistica. Non c’è niente di definitivo su cui lo spettatore possa costruire un racconto.

 

Poi, di scena in scena, le cose si complicano, sia per Lucy che vuole tornare a casa il più presto possibile, che per lo spettatore, perché passando di stanza in stanza vediamo i genitori invecchiare o ringiovanire, come se il presente non esistesse più e la casa diventa una presenza magica e terribile. C’è Toni Colette giovane o morente, David Thewlis con l’Alzheimer che scrive dei bigliettini per capire cosa sia una certa cosa. Così sulla camera di Jake da ragazzo ha scritto che è la stanza di Jake da ragazzo. E lo ripete più volte a Lucy.

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Che proprio in quella stanza troverà i libri e i dvd che  hanno formato la cultura di Jake e stanno costruendo il racconto che seguiamo. Il libro delle critiche di Pauline Kael, ad esempio, i dvd dei film che ama. E nel sottoscala da horror come tutti i sottoscala troverà i quadri e le fotografie che lei stessa ha mostrato ai genitori di lui come suoi, ma qui firmati da Jake o da altri nomi. Quando i due torneranno in macchima per un'altra lunga sequenza di dialogo fitto, ci è già chiaro che Lucy e Jake tendono un po’ a avere la stessa identità o non identità.

 

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Come se Lucy fosse, insomma, una creatura della fantasia letteraria di Jake, che sostiene più volte che nessuna ragazza può stare con lui. E’ come se tutto il film fosse costruito dallo stesso desiderio (di Jake?) di mettere in scena un’identità costruita con le letture e le visioni di un solo autore. Tutto il resto del film, con omaggi al musical “Oklahoma” (come nella serie “Watchmen”), la ri-messa in scena di Jake vecchio del discorso finale di Russell Crowe in “A Beautiful Mind”, fanno in fondo parte dello stesso meccanismo di ri-appropriazione della propria identità culturale e sulla sua messa in scena.

 

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Siamo dentro la testa di Jake o, meglio, di Charlie Kaufman. Ma ho letto anche altre spiegazioni, penso al  lungo articolo di Richard Brody sul “New Yorker”, che tira in ballo perfino gli effetti della cultura patriarcale maschile sull’identità culturale femminile. Ma non mi sembra questo il cuore dell’opera. Il film si presta sì a dibattiti infiniti, magari un po’ da nerd americani, ma è costruito proprio sulla scrittura di quel che sentiamo e vediamo. La scrittura, come sempre, è il cuore della storia. Sul sito Indiewire lo stesso Kaufman qualcosa spiega su certi aspetti del film. Ma penso che la cosa migliore sia vederlo. E magari rivederlo.

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