Marco Giusti per Dagospia
lily james in finalmente l'alba
La Roma del 1950, tra Hollywood sul Tevere e il sogno di riscatto di una generazione. Identità da costruire e ricostruire al femminile, ricerca della verità nel mettere in scena realismo o finzione sul grande schermo. Ma soprattutto la fine dell’innocenza di un paese. Perché questo fu il caso Montesi e questo svelò il finale sulla spiaggia della Dolce vita di Fellini.
Questi sono gli importanti ingredienti del bello e complesso “Finalmente l’alba” di Saverio Costanzo, ultimo film italiano del quintetto in concorso a Cannes, che arriva sui nostri schermi per San Valentino con un ricco cast di volti più popolari tra il pubblico più giovane, come la bellissima Lily James di “Pam e Tommy” e il Joe Keery di “Stranger Things” e “Fargo 5”, uniti alla inedita Rebecca Antonaci dagli occhioni spempre spalancati e al sempre magnifico Willem Dafoe, che abbiamo appena celebrato come Doctor Frankenstein in “Poor Things”.
willem dafoe in finalmente l'alba
Opera maggiore, ricca, almeno per il nostro cinema (18 milioni), scritta e diretta dal Saverio Costanzo, dedicata al padre da poco scomparso Maurizio, dove i personaggi sembrano tutti entrare o uscire da film nel film che fanno i conti con la realtà e la sua rappresentazione cinematografica in un gioco di incastri infinito. Più dritta, più semplice e riuscita nella versione più corta (25 minuti) che esce ora in sala rispetto a quella di Venezia, che aveva però un suo fascino felliniano con il personaggio che si perde nel labirinto della notte romana. Tema ora più nascosto.
Un film, che si apre con un film da neorealismo all’americana dove un soldato americano, Joe Keery, non riesce a salvare la madre ebrea, Alba Rohrwacher in versione Alida Valli, che si sacrifica per sua figlia, ma salva la bambina e la accompagna in un bianco e nero impegnativo in fondo a Trinità dei Monti per un finale tragico ma rassicurante. “Ma che vado al cinema per vede’ morì i bambini?!” sbotta poco convinta la madre della protagonista, Rebecca Antonaci. E’ la vecchia guerra tra realismo, più o meno neo, e commedia. Ne sapeva qualcosa Maurizio Costanzo col suo teatrino televisivo.
Ma ne sa qualcosa anche Saverio Costanzo reduce dalla sua grande esperienza della serialità de “L’amica geniale”. Ma più che fare i conti con il Neorealismo (chi può davvero fare i conti col Neorealismo? Solo Rossellini, Amidei e Fellini potevano provarci…), Saverio Costanzo costruisce un percorso assolutamente innovativo dove i personaggi, attori o spettatori che sognano di diventare attori, si muovono tra realtà e cinema come se facessero parte dello stesso grande immaginario collettivo. Costanzo, assecondando un’idea davvero bigger than life, unisce nello stesso tempo, pur se con dieci anni di distacco, il Neoeralismo rosselliniano o post-rosselliniano e il kolossal alla Cleopatra, passando per il Teatro 5 di Cinecittà e il caso Wilma Montesi.
Un delitto che svegliò l’Italia dal sogno di successo facile del dopoguerra. Come se facessero parte di un unico disegno, almeno narrativo. E ha un’intuizione geniale, che però non sviluppa fino in fondo. Adattare il suo modello di cinema realistico già provato in “L’amica geniale” alla Roma di “Bellissima” e dei teatri di posa dei sandaloni dove nessuno parla inglese e tutto rimane non-capito. Ma non vuole, almeno credo, né tentare qualcosa di storico sul cinema italiano o sulla realtà del dopoguerra, segnata appunto dalla ragazza morta nel party della villa a Capocotta.
Vuole invece mostrarci quanto cinema e realtà rappresentata facciano parte di un unico grande gioco delle parti dove a scegliere le storie da seguire e le parti da recitare è il caso più che un regista o un soggettista. Al punto che la ragazza da seguire fra le due sorelle protagoniste delle prime scene del film, non è quella più florida, che pensavamo da subito che sarebbe stata presa nel casting degli americani sbarcati a Cinecittà, ma quella più minuta, Mimosa, interpretata da Rebecca Antonaci, che ha incrociato per un attimo lo sguardo della star americana, la Josephine di Lily James, più Belinda Lee che Elizabeth Taylor.
In una serie di mosse, sbagliate, imprevedibili o solo maldestre, la nostra protagonista, dopo l’esordio sul set di un peplum incredibilmente violento, accompagnata da Josephine, dal suo partner cinematografico Sean Lockwood, cioè Joe Keery, dall’intellettuale americano a Roma Willem Dafoe, viene rivestita dalla diva e portata in giro per la notte romana. Il ristorante, le rovine dell’Appia come in “Le notti di Cabiria”, poi la festa a casa Montagna, dove entra come nella storia e nei panni della ragazza morta, Wilma Montesi. Senza pensare alla grazia innestata da Pasolini nel mondo felliniano che tutto può salvare.
Ma chi sta dentro il film e chi fuori, chi recita e chi esiste? Costanzo ci riempie di false citazioni e gioca con neorealismo e peplum, non esiste nessun peplum con i corvi che mangiano gli occhi ai prigionieri, il caso Montesi e la lavorazione di Cleopatra non coincidono affatto come tempi, ma riesce a far funzionare il suo film al meglio sulla paura della notte romana, sul perdersi nei labirinti dell’Appia, sul ruggito del leone, anzi della leonessa pronta a sbranarti come ai tempi dei peplum. Sapete quanti domatori finirono dilaniati nelle scene coi leoni?
Inserisce la giusta citazione della poesia di Cesare Pavese, del finale della Dolce vita. Smonta un po’, in questa nuova versione, il meccanismo interessante di muoversi tra realtà e la sua messa in scena. Ma alla fine in tutto questo muoversi nel cinema, nell’immaginazione, nel trucco, questo muoversi tra parrucche e identità multiple, la ricerca di un’alba, è solo quella di una realtà che ti riporti alla vita vera. In sala a San Valentino.
FINALMENTE L'ALBA FINALMENTE L'ALBA