metropolitan museum

COME PORRE RIMEDIO AL "RAZZISMO ISTITUZIONALE"? - A METTERCI UNA PEZZA CI PENSA IL DIRETTORE DEL METROPOLITAN MUSEUM DI NEW YORK CHE PRESENTA DUE MOSTRE CHE CONDANNANO ALCUNE DELLE ESPOSIZIONI DEL MET, GIUDICATE TROPPO "EUROCENTRICHE" E PER NULLA RISPETTOSE DELL'ORIGINE AFRICANA DELLA NOSTRA CIVILIZZAZIONE, QUINDI DI ESSERE COMPLICI DI UN’“ESTETIZZAZIONE DELLA SCHIAVITÙ” - UNA MOSTRA CHE MESCOLA I PREGI DI UN DOVEROSO RIESAME CRITICO DEL PASSATO, AI DIFETTI DI UNA PEDAGOGIA CHE NON RIFUGGE DALLO ZELO CENSORIO DI “CANCELLAZIONI” RIPARATRICI...

Estratto dell'articolo di Antonio Pinelli per “la Repubblica”

 

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Investiti dall’onda di piena del politically correct, i grandi musei americani non hanno esitato a cavalcarla, programmando mostre e acquisizioni ispirate alla gender equality e alle denunce della diseguaglianza razziale, esasperate dalla furia iconoclasta della cancel culture.

 

Deciso a riscattare il “peccato originale” di certe sue raccolte storiche, […] il Metropolitan Museum, diretto dall’austriaco Max Hollein dal 2018, si è intestato questa missione riparatrice. […]

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A segnalare questo radicale ripensamento, la sezione dell’Antichità classica si apre, a sorpresa, con una coppia di statue, formata dal Kouros di New York (VI secolo a.C.) e da un Mangaaka, un idolo apotropaico della seconda metà del XIX secolo, uscito dal prolifico atelier di uno scultore africano attivo in Congo.

 

Il pubblico del Met resta inevitabilmente spiazzato dall’acuta polarizzazione dialettica innescata dall’accostamento del tarchiato feticcio pigmeo, dalla postura e dallo sguardo assai poco rassicuranti, alla longilinea figura greca, con la sua rigida posa egizia, il misterioso sorriso arcaico e la puntigliosa definizione delle ginocchia, presagio dell’evoluzione verso statue capaci di prendere possesso dello spazio con crescente fluidità. […]

 

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La “strana coppia” inserita da Hollein all’inizio del percorso museale, preannuncia la mostra The African Origin of Civilization: Myth or Reality, che ricalca il titolo di un rivoluzionario saggio del 1974, in cui lo studioso senegalese Cheikh Anta Diop teorizza l’origine africana della nostra civilizzazione, sulla base dei sorprendenti legami iconografici tra sculture dell’antico Egitto e dell’Africa centro-occidentale.

 

[…] . In questo contesto, la provocatoria coppia composta dal Kouros e dal Mangaaka funge da suggestivo anello di congiunzione tra l’arte africana e i primordi della civiltà greco-romana.

 

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Non meno emblematica di questa stagione del Met è una mostra che ha il suo fulcro in un busto in marmo di una schiava in ceppi del francese Jean-Baptiste Carpeaux (1827-1875). Acquistato dal Met nel 2019 per spezzare l’uniformità razziale delle raccolte dell’ESDA, il busto è una delle migliori versioni in marmo di una scultura che Carpeaux concepì nel 1868, mentre stava lavorando alla fontana in bronzo dell’Observatoire per i giardini del Luxembourg, dove le personificazioni delle quattro parti del mondo, sostengono la sfera celeste.

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Nella fontana l’Africa è una donna a figura intera, che ostenta una catena rotta alla caviglia in segno di emancipazione. […]

 

Pentitosi del titolo Négresse con cui aveva presentato l’opera al Salon, lo scultore si affrettò a modificarla, iscrivendo sul piedistallo delle versioni sucessive la frase Pourquoi naître esclave?, che dà voce alla muta disperazione della donna. […]

 

Quando Carpeaux mise mano al suo busto, però, la schiavitù era stata abolita per legge, il che — non meno del procace torso femminile martoriato dalla fune — rivela la pretestuosità di un’opera che spaccia, dietro lo schermo di uno slogan progressista, un’esotica variante di mercificazione del corpo muliebre. Di qui il titolo Fictions of Emancipation. Carpeaux’s Why Born Enslaved? Reconsidered di questa mostra, che mescola i pregi di un doveroso riesame critico del passato, ai difetti di una pedagogia che non rifugge dallo zelo censorio di “cancellazioni” riparatrici.

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Un esempio? Appena acquisito, il busto di schiava fu esposto, accanto al capolavoro giovanile di Carpeaux, Ugolino e i suoi figli, nella Sala Petrie dell’ESDA, che mimava un cortile francese all’aperto con panchine simili a quelle dei giardini delle Tuileries. Di qui la pronta decisione di “correggerne” l’ambiente europeizzante, sostituendo le panchine con sedie, ideate da un architetto anglo-ghanese, che evocano gli intrecci tessili africani.

 

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Poco dopo, però, la rivolta scoppiata in risposta all’uccisione di George Floyd, suscitò nei vertici del museo interrogativi più radicali: possiamo essere complici di un’“estetizzazione della schiavitù”? E più in generale: non deve il Met porre rimedio al suo “razzismo istituzionale”? Nasce da questi scrupoli l’ulteriore sterzata impressa da Hollein ai programmi del museo, di cui Fictions of Emancipation è l’esempio più pregnante.

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[…] All’insegna di un’ironica demistificazione sono documentate in mostra anche sculture recenti come la colossale sfinge di polistirolo ricoperto di zucchero, esposta nel 2014 dall’artista afro-americana Kara Walker in una raffineria di zucchero a Brooklyn prima della sua demolizione, in omaggio alle schiave che lavoravano la canna da zucchero. Intitolata Sugar Baby, la sfinge è una sorta di Mami di Via col vento, impudicamente accucciata. Un’allusione all’assoggettamento sessuale delle schiave al padrone bianco, ma anche una rivendicazione che ha il pungente sapore di un’irridente ritorsione.

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