MATTIOLI IN ESTASI PER IL “BARBIERE DI SIVIGLIA” - ''MARIO MARTONE NON HA CERCATO DI FARE UN SURROGATO DI OPERA, MA DI TRASFORMARE LE INCONVENIENZE TEATRALI IMPOSTE DALLA GRANDE PESTILENZA IN UNO SPETTACOLO NUOVO, UNA SPECIE DI FILM-OPERA SULL’OPERA, COME UN TRUMAN SHOW LIRICO O GRANDE FRATELLO MELODRAMMATICO'' - VIDEO

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VIDEO: IL BARBIERE DI SIVIGLIA CON LA REGIA DI MARIO MARTONE

https://www.raiplay.it/video/2020/12/Il-barbiere-di-Siviglia-474e0c7f-9622-42c1-954b-ba5a1dee35a7.html

 

 

Alberto Mattioli per www.lastampa.it

 

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Poiché l'opera non si può fare, ma non si può fare soltanto a Milano, ieri pomeriggio l'Opera di Roma ha aperto la sua stagione covidata con Il barbiere di Siviglia. Ovviamente in un teatro senza pubblico, e fin qui siamo nell'attuale lugubre normalità, su Raitre e non in diretta (e con buoni risultati: 650 mila spettatori per il primo atto saliti a 680 mila per il secondo).

 

La novità è che Mario Martone non ha cercato di fare un surrogato di opera, ma di trasformare le inconvenienze teatrali imposte dalla grande pestilenza in uno spettacolo nuovo, una specie di film-opera sull’opera, come un Truman show lirico o Grande fratello melodrammatico.

 

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Niente scene, per cominciare: la scena è il teatro stesso, il palco reale del Costanzi come balcone di Rosina, la platea come interno di casa Bartolo, solo attraversata da una foresta di fili tirati da una parete all'altra che imprigionano la bella pupilla tipo mosca nella ragnatela. I bei costumi d'epoca di Anna Biagiotti, da Barbiere tradizionalchic, diventano ancora più stranianti quando l'azione si fa metateatrale.

 

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Primo colpo di genio, la cavatina di Figaro, che è sempre un problema perché non si sa mai bene cosa fargli fare, mentre quello si spolmona, e quindi di solito si moltiplicano siparietti e controscene e stronzate varie, qui diventa una corsa in scooter del Barbiere di Roma e di un suo accompagnatore per la capitale, mentre il tuttofare (o il faccendiere? Siamo pur sempre a Roma) sbriga le sue molteplici incombenze.

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Poi i due arrivano davanti al teatro dell'Opera, si tolgono il casco e uno è Figaro, vabbé, l'avevano capito, l'altro, sorpresa, è il maestro Daniele Gatti già in frac (scoop: era lui davvero anche nelle sequenze precedenti, mentre si districava dal traffico capitolino con una bella verve, bravo bravissimo in verità).

 

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E così via: le telecamere seguono i cantanti prima di entrare «in scena» e quando la lasciano, i cambi di costume si fanno a vista, con le sarte in visiera e l'addetto che spruzza il disinfettante, le mascherine diventano un elemento dello spettacolo, tutto un metterle e toglierle come nella nostra disgraziata quotidianità, durante la tempesta viene inquadrata la macchina del vento e sul finale primo partono a tradimento le immagini in bianco e nero delle prime più cafonal di ieri e oggi, e non sai se ridere per lo sfottò o piangere perché quell'orrida fucina di cotonature e smoking, botox e commenti idioti ti manca da morire.

 

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E poi le gag, azzeccatissime, la lezione di canto che sembra una di quelle dei tanti Dulcamara della voce, Basilio «giallo come un morto» cui Gatti prova subito la temperatura estraendo il termometro «a pistola» (quello secondo il quale io ho sempre 33 e mezzo, altro che morto, sono putrefatto), mentre fa tenerezza e stringe il cuore che Fiorello canti rivolto all'enorme sala vuota «nessun qui sta, che i nostri canti possa turbar». È uno spettacolo surreale e spiazzante, ironico e incalzante, divertente e commovente. In una parola: rossiniano.

 

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Parte musicale. Che il Barbiere di Gatti sia il migliore dai tempi di Claudio Magno l'ho pensato ascoltandolo, ma qualcuno mi ha fregato scrivendolo prima di me. Si tratta di Elvio Giudici: almeno ho la consolazione di aver pensato giusto. La raffinatezza di certe soluzioni coloristiche è splendida, la flessibilità agogica idem (i tempi sono generalmente spediti ma con improvvisate oasi liriche di grande effetto), l'attenzione al dettaglio straordinaria senza mai diventare calligrafica o rallentare il ritmo teatrale. Aggiungerei anche che i recitativi sono bellissimi, segno che questo Rossini non è solo ben diretto ma anche benissimo concertato.

daniele gatti carlo fuortes daniele gatti carlo fuortes

 

Buona anche la compagnia. Andrzej Filonczyk è un Figaro sapido e solido, forse non sfogatissimo in acuto ma vocalmente sicuro. Ha perfino il fisico adatto per vestirsi da Ciceruacchio o da Rugantino. Ideale la Rosina di Vasilisa Berzhanskaya, un mezzocontralto dal timbro malioso, dalla buona tecnica (attenzione solo a certe agilità non sempre «di forza» come Rossini comanda) e dalla presenza scenica soggiogante, fanciulla ribelle che legge la Corinna di Madame de Staël, il bestseller dell'epoca.

 

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Ruzil Gatin sembra invece un tenorino ante Rossini-renaissance: simpatico sì, e buon attore, ma esile e non sempre irreprensibile nell'intonazione (quindi tagliare il suo rondò non è sbagliato). I due bassi sono fantastici. Alessandro Corbelli, don Bartolo in carrozzella, mostrerà anche qualche fatica, ma che recitazione, che presenza, che maschera sapiente e gloriosa, e che sillabati, ancora. Alex Esposito fa piazza pulita di generazioni di Basilii grotteschi o esagerati o tutti e due insieme. È impettito e minaccioso, sinistro e dignitoso: e canta meravigliosamente. Quando in scena ci sono loro due, è subito commedia all'italiana, un gioco di sguardi, di ammiccamenti, di inflessioni che sembrano spontanee e sono invece calibratissime, insomma la nostra arte più bella, il grande teatro italiano. Per completare la festa, c'è anche un'ottima Berta, Patrizia Bicciré, e poi consiglio di tenere d'occhio e d'orecchio Roberto Lorenzi, già visto nell'Ange de Nisida a Bergamo, cui basta Fiorello per farsi notare.

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Per finire: che, alla fine, il protagonista di questo Barbiere di Siviglia sia stato il teatro stesso, inteso proprio come edificio e istituzione, i suoi velluti e i suoi ori, i suoi corridoi oscuri e i suoi camerini, la scena e il retroscena, le sue professionalità così specializzate e preziose, dalle star alle sarte, dagli orchestrali ai macchinisti, è un inno alla speranza e un monito a chi pensa che qualche Netflix della cultura possa sostituirlo. Ci vuole altro che una pandemia per ammazzare il teatro. Quando all'happy end tutti iniziano a tagliare i fili che imprigionavano la platea, il messaggio passa forte e chiaro. Vogliamo tornare a teatro, vogliamo tornare a casa nostra.

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