"NON AVEVO MAI GIOCATO PRIMA DELLA SERIE" - FACCIA A FACCIA CON ANYA TAYLOR-JOY, "LA REGINA DEGLI SCACCHI" DELLA SORPRENDENTE SERIE NETFLIX: "AVEVO L’IMPRESSIONE CHE QUEL PERSONAGGIO FOSSE UNA VOCE CHE STAVA NELLA MIA TESTA DA TEMPO" – "LE PILLOLE DI BETH? ALL’INIZIO FUNZIONANO, MA LE DIPENDENZE SONO INSOSTENIBILI, E NON LASCIANO MOLTE ALTERNATIVE: RIABILITAZIONE, PRIGIONE O MORTE. ALLA FINE IL SUO PIÙ GRANDE NEMICO È SE STESSA" – E SULLA SECONDA STAGIONE… - VIDEO

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Stefano Montefiori per "www.corriere.it"

 

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«Non c’era ancora la sceneggiatura, ma avevo il romanzo di Walter Tevis. E dal primo istante in cui ho incontrato Beth Harmon ho sentito che avrei potuto raccontare la sua storia. Certe volte devi lavorare un po’ sul personaggio per capirlo, ma stavolta era tutto chiaro, Beth aspettava solo me.

 

Ho raggiunto di corsa Scott Frank, il regista che stava cominciando a lavorare alla serie, ho aperto la porta del ristorante e ho gridato: non si tratta solo di scacchi e deve avere i capelli rossi!». La parte di Beth Harmon, compresi i capelli rossi, è in effetti andata a Anya Taylor-Joy, 24 anni, modella e attrice nata a Miami ma cresciuta fino ai 6 anni a Buenos Aires.

 

la regina degli scacchi la regina degli scacchi

Quando i genitori (madre anglo-spagnola, padre scozzese-argentino) portarono la famiglia in Inghilterra, Anya fino a 8 anni si rifiutò di parlare inglese perché era contraria al trasloco. Una cocciutaggine naturale che le è forse servita per interpretare Beth, fare della Regina degli scacchi la serie Netflix più vista di sempre e rendere la scacchiera, nata 1.500 anni fa, un improbabile nuovo oggetto alla moda. Incontriamo Anya Taylor- Joy in videoconferenza, negli uffici londinesi della società di streaming.

 

Nella Regina degli scacchi vediamo Beth crescere dall’adolescenza fino ai 25 anni. Le è piaciuto accompagnarla?

«Moltissimo, l’evoluzione personale di Beth è al cuore della serie. Lo spettatore la vede bambina e la segue fino all’età adulta, è un processo che trovo affascinante».

 

È stato difficile interpretare le età diverse?

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«No, l’unica difficoltà era legata al fatto che, a causa dei miei impegni e del calendario, poteva succedere che nello stesso giorno girassimo una scena in cui Beth aveva 15 anni, poi 23, poi 19. Ho dovuto solo passare più tempo a prepararmi e a ricordare quei piccoli tic fisici che cambiano a seconda delle età del personaggio».

 

E quindi lei doveva cambiare abiti di scena, trucco e immagine più volte nella stessa giornata.

«Sì, ma questo in realtà mi ha aiutata. Per ricordarmi a che punto della storia eravamo e quale età stavo interpretando, bastava che dessi un’occhiata allo specchio e avevo subito i miei punti di riferimento».

 

Gli appassionati di cultura popolare giapponese hanno osservato che La regina degli scacchi segue la struttura di un nekketsu, quei manga, come Dragon Ball, dove lo schema narrativo prevede un eroe ragazzino spesso orfano, dotato di qualità straordinarie e di un sogno invincibile, che lotta contro il male grazie ad amici che imparano ad apprezzarlo. È la vicenda di Beth, dall’orfanotrofio al campionato del mondo di scacchi.

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«Non lo sapevo, interessante. La storia di Beth è in effetti il viaggio di una giovane eroina, un romanzo di formazione. A me piace definirlo come un fuscello che diventa un albero. Quando mi chiedono se ci sarà una seconda stagione, rispondo che in effetti la parte interessante è questa trasformazione, l’evoluzione della vita di Beth, non ci si stanca di seguirla».

 

Un altro aspetto interessante è il rapporto di Beth Harmon con le dipendenze. La serie ha un approccio piuttosto coraggioso con la questione. Le pillole che Beth si abitua a prendere, all’inizio, funzionano.

«Già, ed è questo il problema. Questo spiega perché così tante persone sono dipendenti dalle droghe e dall’alcol. Sono abitudini distruttive ma, all’inizio, appunto, funzionano. Grazie alle pillole che le davano all’orfanotrofio Beth inizialmente è più lucida, vede la scacchiera e le mosse con maggiore chiarezza. Ma le dipendenze sono insostenibili, e non lasciano molte alternative: riabilitazione, prigione o morte. Il rapporto di Beth con le dipendenze e il suo tentativo di uscirne è un tema importante della serie».

 

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Come se quello fosse parte del prezzo da pagare per il successo.

«Una delle cose che mi piacciono di più di questa storia è il fatto che le circostanze esterne nella vita di Beth sono evidentemente molto pesanti, la morte della madre è un fatto terribile, ma alla fine il suo più grande nemico è sé stessa. E credo che questo sia vero per tante persone. C’è l’idea di una lotta per raggiungere la padronanza di sé come modo per conquistare ciò che si vuole. Ti tuffi in profondità dentro te stessa per capire chi sei davvero e che cosa conta davvero per te più di ogni altra cosa. Penso che, specie in questi tempi difficili, con la pandemia e i lockdown, siamo portati a un po’ più di introspezione. Spero che ne usciremo tutti più forti».

 

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Che cosa ha trovato nel romanzo per farla scattare e andare dal regista a dire «Beth Harmon sono io»?

«Avevo l’impressione che quel personaggio fosse una voce che stava nella mia testa da tempo. Come attrice, penso che ci siano certi personaggi fatti per te, e altri no. Non ci puoi fare niente. Mi è capitato di ricevere offerte per alcune parti interessanti che ho rifiutato dicendo ”grazie ma non fa per me, troverete facilmente qualcuno di più adatto”. È una sensazione molto immediata».

 

E com’è andata con gli scacchi? Durante le riprese ha avuto consulenti?

«Il più celebre è Garry Kasparov, che ha consigliato i produttori ma senza incontrarmi. Ho passato la maggior parte del tempo con Bruce Pandolfini (che ha un cameo nell’episodio 2, ndr). È stato il mio grande maestro, mi ha insegnato le mosse e per ogni gesto chiedevo la sua approvazione ».

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Non conosceva gli scacchi?

«Non avevo mai giocato prima della serie. Mi è sempre piaciuta l’estetica degli scacchi, il modo in cui appaiono, ma non avevo mai avuto l’occasione di imparare e mi considero molto fortunata ad avere avuto come maestri dei campioni così straordinari. Ho cercato di avere molto rispetto per gli appassionati, di non commettere errori che potessero deluderli. E adesso gioco anche io».

 

Quindi lei è una delle migliaia di persone che stanno cominciando grazie alla Regina degli scacchi.

«È così. Ho alcune scacchiere bellissime ora, sarebbe un crimine non usarle».

 

A proposito di estetica, un’altra ragione del successo della serie è l’aspetto puramente visivo, gli straordinari vestiti di Beth e gli arredi anni Sessanta, un po’ come è accaduto con Mad Men. È importante secondo lei?

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«Assolutamente sì, per molte ragioni. La prima è che alle donne, in particolare, è stato detto troppo spesso che dovevano scegliere se avere un cervello o essere belle. È incredibilmente stupido pensare che un essere umano possa essere solo una cosa o l’altra. Esistono tantissime sfumature di grigio e non c’è alcun obbligo di sceglierne una in particolare, e una volta per tutte».

 

E poi? Perché gli abiti di Beth sono importanti?

«Oltre al fatto che sono belli da vedere, dicono molto del personaggio. Beth ama l’ordine e la bellezza. La prima volta che si innamora, si innamora della scacchiera, del suo aspetto. Beth vuole che le cose abbiano una certa immagine, è importante per lei. Trovo naturale che trasferisca questa ossessione di bellezza e perfezione negli abiti, è un tratto importante della sua personalità».

 

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Che cosa pensa del personaggio Alma, la madre adottiva di Beth?

«Mi è molto piaciuto recitare con Marielle Heller, che interpreta Alma. Trovo che sia una parte molto toccante della storia. Sono entrambe donne ferite, in modi diversi, condividono la stessa sofferenza e l’attrazione per l’alcol e non solo. Ma sanno starsi vicine, essere una consolazione l’una per l’altra. Alma e Beth riescono a rompere l’isolamento e la sfiducia nel prossimo, Beth capisce che può imparare a fidarsi degli altri, di Alma e poi degli amici».

 

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Beth Harmon è un’eroina femminista?

«Sì, anche se inconsapevole. Tutti la guardano stupefatti, nella provincia americana di quegli anni nessuno immagina che una bambina e poi una giovane donna potesse avere simili doti e arrivare a battere i campioni, ma in fondo per lei non è quello il punto. È un problema della società, non il suo problema. Lei vuole solo essere la migliore. Il resto non le interessa molto. Mi è piaciuto questo aspetto di superiorità rispetto alla stupidità degli altri. Beth non si lascia intimidire. Va avanti per la sua strada, talmente avanti rispetto a quei poveretti che la guardano dall’alto in basso».

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