STRANGE DAYS, AGAIN! - A 62 ANNI KATHRYN ANN BIGELOW SEMBRA SEMPRE L’ETERNA RAGAZZA LEGATA CON PHILIP GLASS - IN GIRO PER PROMUOVERE “ZERO DARK THIRTY”, IL FILM SULLA CACCIA E L’UCCISIONE DI OSAMA BIN LADEN, E’ CRESCIUTA CON IL MITO DI ‘’THELMA E LOUISE’’: “AMO LE DONNE FORTI E PROTAGONISTE. SENZA COMPROMESSI” - PRIMA DONNA OSCARIZZATA PER LA REGIA: SCONFISSE JAMES CAMERON, CHE FU SUO MARITO…

Arianna Finos per "la Repubblica"

Colori e parole. Figlia unica, Kathryn Bigelow si definisce «la fortunata sintesi di due genitori molto diversi». Il padre gestiva una fabbrica di pittura, la madre era una bibliotecaria: «Per lui contavano le immagini, la composizione. Per lei, insegnante finita a lavorare tra i suoi amati libri, la parola veniva prima di tutto». Capelli lisci e lunghi, grandi occhi color nocciola, fisico atletico, Kathryn Ann Bigelow è brava e bella.

A sessantadue anni compiuti pare sempre l'eterna ragazza di San Carlos, Pasadena, ne dimostra almeno quindici di meno, ma davvero. Convive felicemente con il co-sceneggiatore quarantenne Mark Boal. Insieme hanno firmato The Hurt Locker, pellicola Oscar sulla dipendenza da guerra di uno sminatore dell'esercito americano in Iraq, e il discusso Zero Dark Thirty, sulla caccia e sull'uccisione di Osama Bin Laden, appena arrivato nelle nostre sale e candidato a cinque Academy Awards.

«Un regista con le palle». Fu il commento dello scomparso Gillo Pontecorvo all'uscita dalla proiezione veneziana di Strange Days. Era il '95, e quella definizione sintetizzava involontariamente lo stereotipo globale, che scambia per approccio maschile alla macchina da presa la precisione documentaristica e la potenza visionaria con cui Bigelow racconta la guerra moderna. L'altro luogo comune è legato appunto all'avvenenza: l'ultimo commento, via Twitter, è arrivato da Bret Easton Ellis all'indomani del riconoscimento a Zero Dark Thirty come "miglior film dell'anno" da parte del prestigioso National Board of Review: «È sopravvalutata perché è una bella donna».

« Hot », è la parola che ha usato l'autore di American Psycho. L'apprezzamento urticante ha fatto il giro del mondo, poi naturalmente sono arrivate le scuse. «Da molti anni ho smesso di commentare questo tipo di considerazioni», sospira la schiva Kathryn. «La speranza, non solo per me, è che arrivi un giorno in cui sia normale che una donna faccia quello che faccio io. Perché non c'è proprio niente di unico, in quello che faccio io.

Eppure ancora oggi sono poche le donne che lavorano a Hollywood in posizioni importanti. La percentuale di registe occupate nell'industria di Los Angeles è invariata dal 1987, inchiodata all'otto per cento. E i miei Oscar possono fare poco per sfondare il tetto di vetro». Ogni sua frase è preceduta da una pausa. Il tono è calmo, nessuna polemica. L'understatement, per lei, è attitudine naturale.

Nella campagna che l'avrebbe certificata prima donna nella storia del cinema a vincere la statuetta da migliore regista, i tabloid di tutto il mondo l'hanno subito contrapposta all'ex marito James Cameron. Lei ha sempre cercato di smorzare i toni. Poche parole in pubblico, solo quelle strettamente necessarie. Lui correva con Avatar, ma la corazzata fantascientifica tridimensionale si è infranta contro il piccolo film di guerra che segnava il ritorno di Kathryn sette anni dopo il disastro economico del bellico K-19 The widowmaker.
«Sono felice per lei», ha detto l'ex coniuge e rivale quella notte. Sembrava sincero. Tra loro non è mai mancata l'energia creativa: fu lui a produrre (e scrivere) Strange Days, nell'immediato un flop ma poi diventato culto, al pari di Point Break (la cui scena di rapina con le maschere dei presidenti americani guidati da Reagan è tra le più citate).

Film che hanno segnato il cinema degli anni Novanta, pura adrenalina: «L'equivoco è considerare il cinema d'azione appannaggio esclusivamente maschile. Quando ho fatto film come Point Break e Blue Steel mi interessava il confronto tra i personaggi. È da questo che nasce la tensione» spiega la regista. Mette in scena situazioni estreme, nelle quali emergono figure femminili iconiche: come la poliziotta Jamie Lee Curtis di Blue Steel, l'autista guerriera Angela Bassett di Strange Days, l'agente Cia a caccia di Bin Laden Jessica Chastain di Zero Dark Thirty.

«Sono cresciuta con il mito di Thelma e Louise - racconta - amo le donne forti e protagoniste. Senza compromessi». Come lei. È entrato nella storia del cinema il suo scontro con Luc Besson: dopo un provino a Milla Jóvovich, modella e soprattutto compagna del regista e produttore francese, Bigelow disse che voleva un'altra attrice. Fu licenziata. Forte ma mai aggressiva, voce di velluto, questa donna così brava a mettere in scena la violenza più che al cinema di Pontecorvo (per quanto non manchino assonanze tra Zero Dark Thirtye La battaglia di Algeri) s'ispira a quello di Federico Fellini.

Non a caso venne scelta, in tempi lontani dal successo attuale, era il '96, per il premio intitolato al regista riminese. Si presentò, emozionata, a ritirarlo al Grand Hotel di Rimini: «Il mio primo film, Il Buio si avvicina, deve molto a Le notti di Cabiria. Giulietta Masina è una delle interpreti che mi ha più emozionato nella vita. Ma ovviamente devo molto anche a Antonioni, Rossellini, Leone». Un talento immaginifico, quello dell'artista californiana, che si è manifestato precocemente: «Ho iniziato a dipingere da ragazzina. Da quello che ricordo, è sempre stato ciò che volevo fare nella vita. Ed ero pronta ad andare avanti, anche se non ero affatto sicura di poter vivere del mio lavoro».

Studia pittura a San Francisco, vince varie borse per l'università. «A vent'anni mi sono trasferita a New York per studiare, vivevo a due passi dalle Torri Gemelle. Sono seguiti momenti economicamente molto difficili». Insieme a Philip Glass (che a quei tempi lavorava saltuariamente come tassista) trovavano loft scalcinati che ristrutturavano per i clienti: «Intanto ci vivevamo dentro. Con Philip condividevamo le spese e un futuro tremendamente incerto. Mi capitava spesso di dormire dentro il sacco a pelo».

Ha partecipato attivamente alle avanguardie artistiche. «Il mio mentore è stato Lawrence Weiner. Un artista concettuale newyorchese straordinariamente onesto e pieno di talento. E poi ho lavorato con un altro gruppo di artisti, i britannici di Art & Language, ora stanno a Londra. Le esperienze fatte con loro mi hanno influenzato in modo profondo. Hanno legato la mia visione astratta e formale dell'immagine a qualcosa di concreto, a un contenuto. E questo concetto io l'ho trasformato nel mio cinema».

Il passaggio alla regia è stato casuale. «Non l'ho cercato io, semmai il contrario. Mi sono ritrovata a partecipare a cortometraggi collettivi: e mi si è aperto un mondo eccitante. Improvvisamente ho trovato la mia strada». Milos Forman vide uno dei suoi corti e le fece assegnare una borsa per la Columbia University. Iniziò così una lunga marcia fatta di sperimentazione, flop commerciali, critiche spesso preconcette. Una strada piena di polvere e sudore che l'ha portata lontano. Kathryn, cappellino da baseball e tshirt, ama i sentieri impervi: «Le difficoltà mi motivano».

Affronta la calura del deserto, maneggia armi pesanti, parla la lingua dei soldati e sa raccontarli sul campo: nell'ultimo anno e mezzo per preparare il film su Osama ha fatto la spola tra la Giordania, l'India e Londra. È tra i pochi registi a governare tutti i generi: ha raccontato storie di vampiri, western, thriller, gli strani giorni di un mondo fantascientifico vicino all'Apocalisse. «Ai tempi di Strange Days ero decisamente pessimista sul futuro dell'umanità». Diceva, allora, di «sognare un futuro daltonico, in cui l'occhio non percepisse le differenze razziali».

Oggi «il mio sguardo è più roseo, anche per la presenza di un presidente come Barack Obama». Si è sempre considerata un'intellettuale, di sinistra. «Tutti i miei film sono stati politici, anche Strange Days».

Ma il «messaggio» è sempre un passo indietro. Per questo non si aspettava le critiche piovute da destra e da sinistra (culminate anche in interrogazioni parlamentari) a causa delle scene di tortura di Zero Dark Thirty: un prigioniero viene seviziato, sottoposto alla tecnica del waterboarding sotto lo sguardo distaccato dell'indomita agente pronta a tutto pur di rintracciare il covo di Bin Laden: «Spielberg ha girato un film sull'Olocausto, questo non significa che l'appoggiasse. Io ho messo in scena il decennio oscuro, la lunga caccia e il prezzo pagato per il risultato. Non soltanto da parte di uomini e donne che vi hanno dedicato la propria vita, e qualcuno l'ha persa, ma anche di un intero Paese. Il mio film è il ritratto di un fanatismo, di un'ossessione. La tortura esiste e volevo mostrarla cercando di lasciare al pubblico la possibilità di formulare il proprio giudizio».

 

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