Antonio Gnoli per “la Repubblica”
Tra i personaggi storici che hanno fatto la televisione italiana Piero Angela occupa un posto tutto suo. Egli è l' eccezione che si fa per un momento norma, come fu per Alberto Manzi, educatore straordinario. Il prossimo anno compirà novant' anni.
Si è preparato scrivendo un libro ( Il mio lungo viaggio, edito da Mondadori) in cui racconta gli anni dell' infanzia, la prima giovinezza, la passione per il jazz, il giornalismo, l' impegno nella divulgazione scientifica. Ha il dono della chiarezza e della sintesi. Non sembra neanche nato in Italia: «Ho vissuto molto all'estero, viaggiare tantissimo mi è servito anche per togliere alla lingua italiana gli orpelli notarili», dice. Sediamo in cucina, un luogo insolito ma è qui, nella sua casa romana, che c' eravamo visti l' ultima volta alcuni anni fa: «È il posto che prediligo, con mia moglie praticamente viviamo in questo spazio.
franca maria ferrero piero angela
Sei un abitudinario?
«Diciamo che difendo le buone abitudini, o meglio quelle inclinazioni che si formano quando sei piccolo».
Sei nato alla fine degli anni Venti.
«È incredibile se penso a quali trasformazioni il Paese, la società, la gente sono andati incontro».
Com' eri da bambino?
«Abbastanza normale: pochi amici con cui giocare, pochi giocattoli, poco divertimento. La sera a letto presto. La mattina all' alba sentivo i rumori di mio padre che si alzava alle sei per andare a lavoro».
Cosa faceva?
«Era il direttore di una clinica psichiatrica a San Maurizio Canavese. Durante la guerra vi ho trascorso un lungo periodo».
Non da paziente spero.
«Ci trasferimmo lì con tutta la famiglia. Rispetto ai bombardamenti su Torino, quel lembo di provincia piemontese ci pareva un luogo sicuro».
E cosa facevi?
«Le giornate trascorse in clinica mi sembravano interminabili. Avevo imparato a giocare a bridge. Uno dei compagni di gioco era Sergio Segre. Grazie a un suo libro di memorie, scoprii anni dopo che mio padre aveva salvato molti ebrei accogliendoli nella clinica sotto falso nome».
Che uomo era tuo padre?
«Era nato nell' Ottocento, un secolo che misurava o imponeva una distanza considerevole da me. Ci siamo parlati pochissimo; quando avrei voluto conoscerlo meglio, conversare con lui, non fu più possibile. Morì che avevo vent' anni. Come psichiatra aveva studiato a Parigi con Joseph Babinski, un allievo di Charcot. Fu un uomo austero molto diverso nel carattere dalla leggerezza e dal sottile umorismo che animavano lo sguardo e la parola di mia madre».
piero angela e osvaldo bevilacqua
Cosa hai preso da loro?
«Da mio padre il rispetto delle regole. Sono cresciuto in una società dei doveri. Nessuno allora mi ha mai detto che avevo anche dei diritti. Contava molto di più essere onesti e solidali che non rivendicare o esigere qualcosa che ti spettava. Mi sono formato in un' etica della frugalità. Ancora oggi faccio fatica a sprecare il cibo. Infine mio padre mi ha trasmesso, forse involontariamente, lo spirito scientifico; mentre mia madre mi ha dato un certo ottimismo e la passione per la musica».
Sei stato sul punto di diventare un buon jazzista di professione.
«Diciamo che ho molto amato il jazz. Con mia sorella avevamo iniziato a prendere lezioni di pianoforte. Affrontarle era ogni volta un tormento. All'arrivo dell' insegnante ci chiudevamo in bagno. Smisi perciò di prendere lezione. Il pianoforte mi piaceva e molto liberamente continuai a esercitarmi. Fu ascoltando i primi dischi di musica jazz che mi appassionai al genere».
Cosa vedevi nel jazz?
«La libertà di interpretazione. Mentre il classico ti costringe a stare dentro una partitura - non a caso chi la interpreta è, per quanto geniale, un esecutore - il jazz apre all' improvvisazione».
Dai l'idea di essere più un normativo che un trasgressivo.
«Le regole sono fondamentali nella vita civile come in quella politica. Nell' arte la cosa si fa più problematica. Ma libertà non è sinonimo di facilità, non significa fare ciò che si vuole. Ho passato intere notti a studiare scienza e a migliorare la mia tecnica pianistica».
Al pianoforte hai preferito la televisione.
«Il mio ingresso in tv è stato casuale. Fu grazie a una collaborazione musicale che mi avvicinai a quell' ambiente. Poi ci fu un concorso radiofonico. Partecipai e lo vinsi. Erano i primi anni Cinquanta. Iniziai a lavorare alle radiocronache, nella redazione di Torino. Conobbi tra gli altri Enzo Tortora, cominciava allora a collaborare con la Rai. Nacque tra noi un' amicizia durata tutta la vita».
Che effetto ti fece la sua vicenda giudiziaria?
«Terribile sia per l' accanimento mediatico che per la superficialità con cui furono condotte le indagini».
A cosa ti riferisci?
«Intanto a testimonianze risibili fatte da personaggi improbabili. Vista la gravità di certe imputazioni, associazione di stampo camorristico, avrebbe dovuto esserci, da parte delle autorità, l' obbligo come minimo di verificarne l' attendibilità e invece niente. Fu solo un allucinante "concorso a premi" di false accuse, così lo definì ironicamente Enzo, che in prima istanza lo vide condannato a dieci anni. Solo tre anni dopo fu assolto con formula piena».
MILLI CARLICCI PIERO ANGELA LIVIA AZZARITI
Tu lo vedesti in carcere?
«Sì, andai a trovarlo. Pensavo di incontrare un uomo distrutto e invece era più combattivo che mai. Arrabbiato e smagrito. È pazzesco, dissi, ciò che accade a un innocente. Lui batté i pugni sul tavolo: "Io non sono innocente, sono estraneo!" Era l' Italia degli anni Ottanta, non il Medioevo».
Tu avevi vissuto molto all' estero.
«Ero stato corrispondente tra Parigi e Bruxelles per tredici anni: dal 1955 al 1968».
Ti occupavi già di divulgazione scientifica?
«Pochissimo. Le mie frequentazioni erano più letterarie e artistiche. Incontrai più volte Jean Cocteau e Marc Chagall. Attori come Gérard Philipe e Yves Montand e il mitico Jean Gabin. La Francia di quegli anni era lacerata dal conflitto algerino. Parigi non sapeva come uscirne. Alla fine il presidente della Repubblica René Coty si rivolse al generale de Gaulle. Gli chiese di salvare il Paese. E questo fece».
Concesse l' indipendenza all' Algeria.
«Non poteva fare altro, le colonie non avevano più molto senso. Come conseguenza ci furono vari attentati contro il generale, a uno de Gaulle sfuggì per un soffio».
A proposito di attentati ne racconti uno contro quello che sarebbe diventato il futuro presidente: François Mitterrand.
«Fu un falso attentato. Conobbi il presunto attentatore: Robert Pesquet. Un uomo piuttosto basso e corpulento. Mi disse che era stato incaricato di uccidere quello che allora era un promettente senatore della sinistra. Pesquet mi confessò che contattò Mitterrand avvertendolo che lo volevano morto».
«Per stima, ammirazione, paura, non lo so. Credo non se la sentisse e dunque lo avvertì. Poi aggiunse molto lucidamente che se l' attentato non l' avesse fatto lui, altri ci avrebbero provato e gli propose di simularne la dinamica. Infatti Mitterrand raccontò di essersi salvato per miracolo da una raffica di mitraglia sparata contro la sua macchina la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 1959».
I giornali dell'epoca parlarono dell'attentato?
«Con il necessario clamore. Lo stesso che ci fu per le rivelazioni che mi fece Pesquet. Ma questa storia finì ben presto nel dimenticatoio. Credo che l' Eliseo abbia preferito rimuoverla».
«Di un mezzo che spiegasse le cose, possibilmente senza annoiare e opprimere. Per pura curiosità sono andato a vedermi a caso una giornata di programmazione televisiva del 1978. C' erano le due reti Rai e iniziavano allora le televisioni commerciali».
Cosa hai scoperto?
«Che la televisione di allora osservava ancora uno schema educativo: il varietà del sabato sera durava un' ora e mezza e nell' ambito di quella giornata magari avevi mezz' ora dedicata a Ignazio Silone. Queste erano le proporzioni».
Hai nostalgia di quella televisione?
«No, anche se la televisione di oggi è fondamentalmente basata sull'emotività. L' informazione stessa è massimamente emotiva. Alcuni obiettano: se non fai così la gente se ne disinteressa. Replico che questa è solo la via più sbrigativa per dare informazioni. Esiste un modo più razionale, ma non per questo meno avvincente. Approfondire un argomento vuol dire anche trovare le tecniche di un racconto».
Più o meno è quello che hai fatto occupandoti di scienza.
«Ma anche di società e di politica. Prendi quest' ultima. Hai la sensazione che stia davvero operando per il bene comune?».
Sai meglio di me che non lo fa. Ma su questo perfino la politica finge di essere d' accordo.
«Non lo fa perché il suo orizzonte si limita all' emotività del presente. Agli interessi di parte e al fatto che gli si chiede di fare cose che non sono di sua competenza».
Ossia?
«Per esempio produrre ricchezza. La politica ha il compito di distribuire la ricchezza, non di crearla. Purtroppo si finisce col credere a quei politici che dicono: "Fammi vincere e io ti darò di più: ti darò più lavoro, più soldi, più benessere". Falso. La creazione della ricchezza, con cui paghi tutto questo, non dipende dalla politica».
Forse dipende anche dalla politica.
«La politica contribuisce alla crescita di un Paese. Ma non può distribuire una ricchezza che non ha creato. Può aiutare con scelte mirate le imprese, gli individui, i soggetti meno forti. Ma lo sviluppo di un Paese dipende da altri motori, tipici delle società avanzate e che fanno la differenza. Pensa solo alla ricerca, l' ambito che credo di conoscere meglio. Investiamo meno della metà di ciò che investono gli altri Paesi. Eppure sono le conoscenze nuove che producono ricchezza ».
A proposito di nuove conoscenze come valuti l' uso del digitale e del web?
«Siamo ancora dentro una grande rivoluzione tecnologica che sta cambiando radicalmente i nostri stili di vita, ma anche i modi di pensare. Siamo sufficientemente maturi per gestire simili strumenti?
Posto che la potenzialità è enorme, occorre anche proteggerci dagli effetti negativi. La rete non è solo un consorzio di illuminati, un' accademia di liberi pensatori. Ci trovi di tutto. Gente aggressiva, frustrata, credulona. Si sono formati in rete gruppi di persone convinti che il pianeta sia stato invaso da forme rettiliane e che Obama e la Regina d' Inghilterra ne siano gli emissari!».
Pensi a qualche forma di controllo?
«Come fai? Qualunque blogger può vomitare in rete ciò che vuole. Non è la censura che potrà risolverlo. Ci vorrà molto tempo e il futuro mi pare un fattore poco incoraggiante».
Il tuo modo di affrontare i problemi è sempre stato all' impronta di un certo ottimismo.
«Oggi devo fare uno sforzo enorme per continuare a esserlo. Ho l' impressione che gli uomini non abbiano tratto la lezione su quanto di peggio ci sia accaduto. Il passato non ci dice più nulla e il futuro, ripeto, è avvolto da un grande punto interrogativo».
Eppure questo nuovo secolo era iniziato nel migliore dei modi.
«È iniziato come una partita a scacchi. Improvvisamente, però, non sai più quale sarà la posizione della scacchiera tra venti o trenta mosse».
Cosa vuoi dire?
«Immagina i due giocatori. Da un lato ci sono i "neri" che difendono il fanatismo, le armi nucleari, la corruzione, le promesse elettorali e via via sempre più giù; dall' altro ci sono i "bianchi" che appoggiano l' intelligenza, il merito, la capacità di risolvere i problemi, la stabilità, lo sviluppo. Ecco. Non so come finirà questa partita, di cui alla fine ci parleranno solo gli storici del 2100».
E forse non sarà una bella cronaca.
«Rischia di essere molto malinconica come tutte le cose che decadono. Ricordo che quando ero in Francia seppi che La Bella Otero viveva a Nizza. Decisi di intervistarla. Le mandai un gran mazzo di rose rosse. E il giorno dopo bussai alla sua porta. Dallo spiraglio mi disse che non voleva incontrare nessuno. Chiesi alla portiera se quella donna uscisse mai di casa. Mi rispose che la mattina andava a fare la spesa. Decidemmo, con la piccola troupe televisiva, di aspettarla. Il giorno seguente la vedemmo varcare il portone. Era piccola, dimessa, povera. Viveva con un vitalizio che le passava il casinò, probabilmente il dono elargito da qualche antico ammiratore. La filmammo senza che lei se ne accorgesse».
A cosa pensasti?
franca maria ferrero piero angela
«Che la grandezza, la bellezza e lo splendore non sono eterni. Quella donna racchiudeva in sé tutto ciò che la Belle Époque aveva rappresentato. Nessuno poteva immaginare quanto sarebbe venuto dopo. Di questa storia la sola cosa che mi consolò è che almeno La Bella Otero mise sul balcone le rose che le avevo regalato».