COLD CASE IN SALSA UMBRA – BARBARA CORVI E’ STATA SCIOLTA NELL’ACIDO DAL MARITO – DOPO 12 ANNI CONCLUSA L’INCHIESTA CON L’ARRESTO DELL’UOMO - LA MAMMA DI 35 ANNI SCOMPARSA DALLA SUA ABITAZIONE AD AMELIA, VICINO TERNI, IL 27 OTTOBRE DEL 2009, SAREBBE STATA FATTA SPARIRE IN MODO ORRIBILE COME LA COGNATA ANGELA COSTANTINI 15 ANNI PRIMA: SCIOLTA NELL'ACIDO, DOPO ESSERE STATA UCCISA PER GELOSIA MA ANCHE PER MOTIVI ECONOMICI – L’OMBRA DELLA ‘NDRANGHETA, IL RUOLO DEL FRATELLO E I DEPISTAGGI

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Nicoletta Gigli Corso Viola di Campalto per "il Messaggero"

 

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Barbara Corvi, la mamma di 35 anni scomparsa dalla sua abitazione ad Amelia il 27 ottobre del 2009, sarebbe stata fatta sparire in modo orribile come la cognata Angela Costantini 15 anni prima: sciolta nell'acido, dopo essere stata uccisa per gelosia ma anche per motivi economici. Di questo è convinta la procura di Terni che ha chiesto e ottenuto l'arresto ad Amelia del marito della donna e padre dei suoi due figli, Roberto Lo Giudice.

 

Pesantissime le accuse nell'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip di Terni: omicidio volontario premeditato, occultamento o soppressione di cadavere. Stesse accuse per il fratello di Roberto, Maurizio Lo Giudice, che lo avrebbe affiancato nel progetto criminale e che è indagato a piede libero.

 

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NESSUNA TRACCIA Un delitto apparentemente perfetto, senza lasciare tracce né a casa e neppure nell'auto di lui, Roberto Lo Giudice, calabrese trapiantato ad Amelia. La svolta nelle indagini è il frutto di quel puzzle che è stato smontato pezzo per pezzo dagli investigatori dell'arma, guidati da Alberto Liguori. La rilettura delle carte messe insieme quasi dodici anni fa porterà alla luce i vari depistaggi ad opera del marito sul giallo di Barbara Corvi, inghiottita dal nulla. Viene dato valore soprattutto ad un interrogatorio dell'epoca, quando un testimone invitò il carabiniere a «non perdere tempo» perché Barbara «ha fatto la stessa fine di Angela, sciolta nell'acido».

 

Il resto per inchiodare il marito di Barbara, che dopo la scomparsa verrà sentito più volte dagli investigatori raccontando le sue verità, emergerà grazie a quello che Liguori definisce «il contributo offerto da plurimi collaboratori di giustizia un tempo facenti parte del clan Lo Giudice, per intenderci quelli delle bombe ai giudici di Reggio Calabria del 2010».

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Il procuratore, che due anni fa ha riaperto le indagini tirando fuori dai cassetti le carte ingiallite dal tempo, parla del «grave quadro indiziario dell'indagato Roberto Lo Giudice che, pur non appartenendo al clan mafioso di riferimento, nella vicenda in esame sembra averne condiviso la mentalità: il tradimento deve essere lavato con il sangue». A Barbara, per gli investigatori coordinati dal maggiore Elisabetta Spoti, è stato riservato lo stesso destino di sua cognata, Angela Costantino, moglie di Pietro Lo Giudice, che nel 1994 pagò con la vita il tradimento al marito. Due donne uccise e fatte sparire nel nulla per aver violato il codice d'onore della ndrangheta.

 

I DEPISTAGGI Liguori parla dei depistaggi dell'epoca che ora sono stati smontati dalle indagini: la versione dell'allontanamento volontario di Barbara, scappata con i soldi che aveva in banca per cambiare vita, le intrusioni sul suo computer ad opera del marito e del cognato, quel presunto chiarimento tra moglie e marito del 27 ottobre sulla relazione extraconiugale di lei davanti ai genitori della donna, le cartoline mandate ai figli da Firenze che Barbara non ha mai spedito. E poi i veri motivi della presenza di Roberto a Reggio Calabria, 18 giorni dopo la scomparsa della moglie. E' lì che il marito di Barbara, dopo aver svuotato i conti di famiglia, incontra la sua nuova compagna, Caterina, che presenterà ai figli che sono in ansia per le sorti della loro mamma.

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Un puzzle che si ricompone grazie a tre collaboratori di giustizia, parenti dei Lo Giudice, che Liguori andrà a sentire per chiudere il cerchio. Sarà uno dei tre a riferire che Roberto Lo Giudice gli ha confessato di essere direttamente coinvolto nella scomparsa della moglie. «Le chiamate in reità da parte di attuali collaboratori di giustizia - precisa Liguori - hanno consentito una lettura ragionata e coerente dei vari contributi istruttori raccolti prima dell'archiviazione dell'inchiesta e soprattutto dopo la riapertura delle indagini.

 

Durante le quali ci siamo dovuti confrontare con reticenze dettate dalla paura di ritorsioni». Roberto Lo Giudice, ora in una cella del carcere di Terni, potrebbe tenere la stessa linea di luglio quando, convocato come indagato dal procuratore, si era avvalso della facoltà di non rispondere.

 

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