Simona Siri per “La Stampa”
Alla fine Felicia Sonmez è stata licenziata. La giornalista che per una settimana ha messo in subbuglio il Washington Post invischiando il quotidiano in uno scandalo via Twitter in cui in mezzo c'è finito di tutto - accuse di sessismo, strascichi del #MeToo, il problema della diversità nelle redazioni, vecchi rancori e frustrazioni - è stata lasciata a casa. Per «cattiva condotta che include insubordinazione, diffamazione dei colleghi online e violazione degli standard del Post sulla collegialità e inclusività del posto di lavoro», si legge nella nota di licenziamento.
Tutto era iniziato la settimana prima, quando il collega David Weigel aveva twittato una battuta considerata sessista fatta da un altro («Ogni donna è bi. Rimane da capire se sessuale o polare»). Sonmez lo aveva criticato, sia nella chat interna su Slack sia pubblicamente, chiedendo provvedimenti. Weigel si era scusato, aveva cancellato, ma la direzione del giornale aveva deciso di sospenderlo: un mese senza paga. Un provvedimento per alcuni necessario, per altri esagerato, figlio del clima troppo sensibile di cui oggi sono vittima le redazioni dei giornali Usa. Sarebbe potuta finire così, a chiederci se fare battute sulle donne sia ancora accettabile o meno, soprattutto se a divulgarle è un giornalista di uno dei quotidiani più blasonati al mondo, ma c'è di più perché da lì è nato un lungo e molto pubblico botta e risposta.
Jose A. Del Real, ad esempio, ha sostenuto come tanti le lamentele di Sonmez definendo la battuta di Weigel «terribile e inaccettabile» ma ha anche detto che «farlo attaccare da tutta internet perché ha commesso un errore non risolve nulla».
«Sottolineare il sessismo non è crudeltà, ma qualcosa di necessario», ha ribattuto Sonmez. La direttrice Sally Buzbee per due volte ha tentato di reprimere le pubbliche lotte intestine. «Non tolleriamo che colleghi attacchino altri colleghi né faccia a faccia né online.
Il rispetto per gli altri è fondamentale per qualsiasi società civile, inclusa la nostra redazione», ha scritto in una nota ai dipendenti. Belle parole, rimaste tali. Il giorno prima di essere licenziata, Sonmez è tornata all'attacco criticando i colleghi che avevano definito il Post un posto di lavoro inclusivo e pieno di gente di talento, un luogo nel quale loro erano felici di lavorare. «È un ottimo posto di lavoro per loro», ha scritto in un lungo thread domandandosi se la struttura istituzionale del giornale funzionasse anche per «tutti gli altri» ovvero per i giornalisti non bianchi e non famosi.
il tweet contro il quale si e' scagliata felicia sonmez
Una neanche troppo velata accusa di non inclusività, un problema che già il direttore precedente, Marty Baron, aveva dovuto affrontare. I problemi tra Sonmez e il Post non si limitano a oggi, ma vanno indietro nel tempo. Nel 2021 la giornalista aveva fatto causa (poi persa) per discriminazione perché quando Brett Kavanaugh era candidato alla Corte Suprema - ed era accusato di aggressione sessuale - le era stato proibito di seguire la vicenda: in quanto vittima di stupro e in quanto impegnata attivamente e pubblicamente in materia di molestie sessuali, si temeva non fosse imparziale.
Nel 2020 poi l'episodio di Kobe Bryant: nel giorno della sua morte, Sonmez aveva twittato un articolo del 2016 che ricordava le vecchie accuse di stupro contro il giocatore. Baron aveva messo Sonmez in congedo amministrativo retribuito, dicendo che aveva mostrato «scarso giudizio» e che aveva «minato il lavoro dei suoi colleghi». Il congedo era terminato dopo che più di 300 dipendenti avevano firmato una lettera a suo sostegno. Tra loro anche David Weigel.
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