E FU MOVIDA – I CENT’ANNI DELLA VITA NOTTURNA, INIZIATA CON UNA RIVOLUZIONE DELLE DONNE – A NEW YORK, NEL PRIMO DOPOGUERRA, IL JAZZ, L’ALCOL E LA LIBERTÀ DELLE RAGAZZE CAMBIARONO I COSTUMI

Vittorio Zucconi: “Le due grandi novità che segnano nella nightlife, nella vita notturna di Manhattan, un cambio di epoca, sono l’appropriazione di massa della notte e l’ingresso delle donne, come partecipanti attive e non più soltanto come merce da vetrina”. Il ruolo chiave del Proibizionismo…

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Vittorio Zucconi per “la Repubblica

 

Anais Nin Anais Nin

La notte cominciò a vivere quando il giorno cominciò a morire, nell’America che inventò la vita notturna come contrappasso alla deprimente vita quotidiana. Sono passati novant’anni da quando un gangster e contrabbandiere in carcere a Sing Sing, Owney Madden, prese il controllo di un locale di Harlem nei primi anni Venti e lo ribattezzò “Cotton Club”, rendendolo l’emblema di una cultura della notte che sarebbe dilagata nel mondo, dal “clubbing” dei più sofisticati alla “movida” dei più semplici.

 

La conquista della notte come spazio vivibile, trasgressivo e insieme normalizzato esplode appunto negli anni dopo la Prima Guerra Mondiale e diventa un fenomeno di massa nella Manhattan degli anni Venti Trenta. Teatri, burlesque, spettacoli e locali di varia fama, buona e mala, accanto agli immancabili bordelli e taverne, non furono naturalmente inventati a New York in quegli anni definiti ruggenti.

 

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Il Moulin Rouge, tempio indiscusso dei pellegrinaggi e delle fantasia maschili in Europa, risaliva al 1889. Ma la due grandi novità che segnano nella nightlife, nella vita notturna di Manhattan, un cambio di epoca, sono l’appropriazione di massa della notte e l’ingresso delle donne, come partecipanti attive e non più soltanto come merce da vetrina.

 

Il carburante della notte fu, come in tante occasioni della storia americana, l’immigrazione, con il boom degli abitanti di una città che soltanto nei cinque anni fra la fine della Grande Guerra e il 1920 aumentò di due milioni e mezzo di persone. Il giorno andava stretto a una marea di umanità che cercava, prima nel divertimento e poi nel lavoro, nella notte un’estensione della vita. E aveva nelle donne, scosse dai propri ruoli tradizionali, una forza nuova e rivoluzionaria.

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Accanto alle “suffragette” in marcia per il riconoscimento della parità almeno elettorale, alle “proibizioniste” decise a bandire l’alcol dalla società, una folla molto più allegra, fin troppo per gli scandalizzatissimi moralisti, si metteva in movimento: erano le flapper, le giovani donne con abiti corti, lunghe collane, acconciature alla maschietta che saranno, con le loro silhouette, l’emblema degli anni d’oro, prima della Grande Depressione.

 

Nella Harlem non ancora tutta colorata di nero, ma già avviata sullo scivolo della ghettizzazione, fiorivano i locali come il Cotton Club, o sarebbero nati teatri come l’Apollo, ironicamente progettato e costruito dallo stesso architetto, George Keister, che aveva fatto la «Prima Chiesa Battista di New York».

 

Inizialmente riservati ai soli bianchi, sia il Cotton Club che il teatro che avrebbe poi preso il nome di Apollo furono, per la nuova città brulicante di lingue, razze e popoli diversi, il primo vero punto di contatto fra bianchi di origine europea e neri, trasferiti dalle piantagioni del Sud. L’America del Grande Gatsby, di Ellis Island, della corrottissima amministrazione comunale, dei baroni e degli impostori andava ad ascoltare Louis Armstrong e Duke Ellington, a ballare il tip tap, a flirtare e soprattutto a bere.

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Come il cinema offriva al popolo degli slum, dei tenements, dei formicai degli ultimi arrivati, momenti di evasione per 5 centesimi, così la notte si apriva alla scoperta della diversità e della nuova sessualità svegliata dall’incubo della morte in guerra e dall’epidemia micidiale della Spagnola. Anais Nin raccontava così quelle sensazioni di profonda, incontenibile sensualità: «Harlem. Il Savoy. Musica che fa tremare il pavimento di un luogo enorme, cocktail cremosi, luci fumose e genuina allegria, con il ritmo che scatena a libera tutti, un Nuovo Mondo, un Nuovo Mondo...».

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Per aggirare le limitazioni d’orario imposte dai regolamenti municipali, impresari e proprietari si impadronivano di associazioni private, spesso benefiche o religiose, non sottoposte alle stesse tagliole, creando la duratura finzione del “club”, appunto un ente privato dove erano ammessi soltanto i soci. Ma la “nightlife”, la notte riconquistata dalla vita, nella Decade ruggente, sarebbe stata esaltata proprio dai suoi più severi nemici, i proibizionisti. Sarebbero state le leggi sulla Temperanza a pompare vita nelle arteria di quella vita notturna che aggiungeva, al semplice sapore del divertimento, il gusto irresistibile della trasgressione di legge.

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L’epidemia degli “speakeasy”, dei locali clandestini dove si sarebbe dovuto “parlar piano” per non sollevare l’attenzione di poliziotti teoricamente pronti a intervenire, risucchiò dalle loro case nottambuli che formarono la prima “movida”, il primo flusso e riflusso di avventori alle ricerca di un whisky o di un gin nei locali migliori, come il celebre “ 2-1” di Manhattan o nei saloon per i “miserabili” disposti a bere i terribili distillati detti “marcisci budella”. E tra gangster, mafiosi, gentildonne, “flapper”, alcolisti, meravigliosi jazzisti, politicanti e poliziotti corrotti, signori in smoking, nel buio della Grande Depressione, la notte sarebbe diventata il crogiolo nel quale fondere un altro pezzo d’America.

 

 

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