“ALESSANDRO MICHELE? MI APRÌ LA PORTA IN BABBUCCE DI PELLICCIA” - MARCO BIZZARRI, PRESIDENTE E AD DI GUCCI, RACCONTA COME HA SCELTO IL “SARTO CESAREO” DALL'EGO SMISURATO: “ANDAI A CASA SUA. ERA CURATISSIMA, TUTTA ANTIQUARIATO. PARLAMMO QUATTRO ORE. AVEVAMO LA STESSA IDEA DI ESTETICA E DI BUSINESS. POTEVA RIVELARSI UN CACCIABALLE O UN FUORICLASSE. FECE LA COLLEZIONE UOMO IN CINQUE GIORNI FACENDO LA SCELTA DEL GENDER-FLUID. PER GIORNI CI INONDARONO DI INSULTI E POI…”

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Aldo Cazzullo per il "Corriere della Sera"

 

MARCO BIZZARRI MARCO BIZZARRI

Marco Bizzarri, presidente e amministratore delegato di Gucci, qual è il suo primo ricordo?

«Ho tre anni, chiudo a chiave in casa mia nonna, e butto la chiave. Non ho mai capito perché».

 

E il primo ricordo pubblico?

«Il rapimento di Moro: arriva la notizia in classe e noi ce ne andiamo tutti a casa».

 

Che scuola faceva?

«Terza ragioneria. Il mio compagno di banco era Massimo Bottura».

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Lo chef?

«Il genio. Il Valentino Rossi della cucina: nessun cuoco oggi può prescindere da lui. Allora però non sapeva cucinare nulla. Il padre commerciava in petrolio e lo voleva avvocato. Lui aprì una trattoria. Un giorno si presentò alla porta una vecchia emiliana quasi cieca, Lidia, che era stata licenziata dal ristorante dove lavorava. Fu lei a insegnargli a fare i tortellini. Da allora tutti i migliori talenti che sono capitati tra le mani a Massimo sono andati dalla signora Lidia a lezione di tortellini».

 

Siete ancora amici?

«Anche quest’anno, come ogni 19 agosto, è venuto da me per festeggiare il mio compleanno, nel ristorante di mio figlio Stefano a Gabicce Mare».

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Pure suo figlio ha un ristorante?

«E pure mia moglie Maristella. Insieme abbiamo comprato il locale dove 32 anni fa avevamo festeggiato il matrimonio, nell’antica fortezza di Rubiera, provincia di Reggio Emilia: il mio paese, dove quando sono in Italia torno tutti i weekend».

 

I suoi cosa sognavano per lei?

«Un posto in banca. L’ho rifiutato per continuare a studiare: economia e commercio a Modena».

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Lei è alto due metri. Faceva sport?

«Calcio. Prima centravanti. Poi mezzala: il mio idolo era Roberto Bettega. Infine libero: più crescevo, più diventavo lento. A tredici anni mi voleva comprare l’Inter; ma capii che altri erano più forti di me. Così, anziché all’Inter, sono entrato all’Arthur Andersen».

 

In che modo?

«Chiamando da una cabina telefonica. Mi era venuta l’ispirazione lì per lì. Rispose una giovane donna: “Non funziona così. Siamo noi che chiamiamo. Se non l’abbiamo chiamata, è perché lei non è tra i migliori”. Insistetti per avere un colloquio. E la convinsi».

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Poi lei entrò in Mandarina Duck.

«Pensavo fosse un marchio straniero. Invece era di Bologna. Due soci, che facevano termosaldature in plastica per le pedanine delle auto, scoprirono di averne fatte troppe, e le trasformarono in borse e zainetti. Un successo clamoroso, ma solo italiano. Dovevamo portarlo all’estero. Così ero sempre in giro: Giappone, Ungheria, Cina. Ho vissuto un anno a Hong Kong, nella stagione memorabile del passaggio dall’impero britannico alla madrepatria. Poi ho cambiato: quattro anni a Parigi, da Didier Lamarthe. Quindi sei mesi a Sidney, come direttore generale di una società che importava orologi dall’Europa. Stavo già pensando di portare tutta la famiglia in Australia...».

 

Ma?

«È arrivata la chiamata del gruppo Kering. A dire il vero, eravamo due candidati. Scelsero l’altro. Però la sua azienda rilanciò, e quello cambiò idea. Così puntarono su di me».

 

marco bizzarri salma hayek francois henri pinault marco bizzarri salma hayek francois henri pinault

Kering è il gruppo di François-Henri Pinault. Che tipo è?

«Sono entrato per lui, e sono rimasto per lui. È un uomo che ha una parola sola: una stretta di mano vale un contratto. In questo ambiente, non accade spesso».

 

Pinault ha comprato molti marchi italiani. Tra voi parlate italiano?

«Parliamo inglese, per riequilibrare un po’ la situazione. Io parlo francese, ma se ti confronti con un madrelingua parti sempre svantaggiato...».

 

Il suo primo incarico nel gruppo?

«Lavorare con Stella McCartney. Obiettivo: trasformare il brand della figlia del Beatle nel brand di Stella. Allora fatturava dieci milioni di sterline e ne perdeva altrettanti. Il capo del gruppo disse: Alexander McQueen, Balenciaga e Stella McCartney non stanno raggiungendo gli obiettivi; o li rilanciamo, o ci rinunciamo».

MARCO BIZZARRI MARCO BIZZARRI

 

Come andò?

«Quattro anni dopo Stella fatturava 60 milioni di sterline e ne guadagnava 12. Così mi hanno affidato prima Bottega veneta, poi tutti i brand tranne Gucci, infine Gucci».

 

Era il dicembre 2014.

«Come primo incarico dovevo trovare il nuovo direttore creativo. Frida Giannini era in uscita: l’accordo era che avrebbe firmato ancora la collezione uomo di gennaio e la collezione donna di febbraio, poi avrebbe lasciato. Insomma, avevo solo due mesi di tempo. Ma il direttore non si trovava».

Alessandro Michele e Marco Bizzarri Alessandro Michele e Marco Bizzarri

 

Come mai?

«Lo cercavamo all’esterno. Un tourbillon di cacciatori di teste e candidati. Vidi molte persone, ma con nessuna di loro scattò il clic. Non volevo il benedetto da Dio, l’artista ispirato che chiama alle 3 di notte per far cambiare tutto, che maltratta i collaboratori... Nello stesso tempo, feci quello che fanno tutti i ceo: cominciai a incontrare i responsabili dei vari settori interni. C’era questo ragazzo di Roma...».

 

Alessandro Michele?

«Lui. Allora si occupava di accessori. Suono alla porta, e mi viene ad aprire vestito da Alessandro Michele. Ai piedi aveva i loafer...».

dakota johnson alessandro michele e marco bizzarri green carpet fashion award dakota johnson alessandro michele e marco bizzarri green carpet fashion award

 

I mocassini tagliati dietro, tipo babbuccia?

«Sì, ma di pelliccia. E se li era fatti lui. Ora le pellicce non le usiamo più, ma insomma mi colpì. Entro in casa, e la trovo perfetta, curatissima, tutta antiquariato... Doveva essere un rapido caffè; parlammo quattro ore».

 

E cosa vi siete detti?

«Che Gucci è moda, non tradizione. Non è, che so, Hermès, per citare un marchio storico. Gucci ha bisogno sempre di idee nuove, anche irriverenti. Di cambiare, innovare, sperimentare; se necessario, rischiare. Insomma, avevamo la stessa idea sia sull’estetica, sia sul business. Tenga conto che in quel periodo tutta la moda era un po’ appiattita: dopo l’esplosione di Tom Ford in Gucci, di Ferrè in Dior, di McQueen, tutti tendevano a copiarsi l’un altro, e novità non se ne vedevano; non a caso i giovani si tenevano lontani dai negozi. E poi Alessandro mi piacque come persona: gentile, educato, sensibilissimo, umile...».

 

Non chiama alle 3 del mattino.

marco bizzarri PRESIDENTE E CEO GUCCI marco bizzarri PRESIDENTE E CEO GUCCI

«No. Uscii da casa sua e telefonai a Pinault: “Mi sa che il direttore creativo l’abbiamo trovato. Basta cacciatori di teste e candidati esterni. Ce l’abbiamo in casa”. Lui si fidò. Anche se il rischio c’era».

 

Perché?

«Perché fare il direttore creativo non è fare il designer. Alessandro poteva rivelarsi un cacciaballe o un fuoriclasse. Per fortuna si è rivelato un fuoriclasse».

 

Come avete cominciato?

«Scrivendo un manifesto, lo chiamammo proprio così, in cui non c’era un numero, ma soltanto idee. Lo show era il 14 gennaio. Il 9 gli chiesi: “te la senti di fare tu la collezione?” Rispose di sì. Gettammo via gli abiti di Frida Giannini, e Alessandro disegnò la collezione uomo di Gucci in cinque giorni. Facendo la scelta del gender-fluid, quasi senza distinzione tra uomo e donna. Un rischio pazzesco».

Gucci alessandro michele Gucci alessandro michele

 

Come fu l’accoglienza?

«Anna Wintour impazzì, prese l’aereo e venne in Italia apposta per conoscere Alessandro. Altri esperti apprezzarono. Ma tanti dissero: chi è ’sto matto? Per tre giorni fummo inondati di insulti. Le novità hanno bisogno di tempo per essere accettate. E noi abbiamo sempre protetto il nuovo direttore. Anche così in questi anni abbiamo quasi triplicato il fatturato, da 3,5 miliardi a circa dieci. E i dipendenti sono passati da 10 a 21 mila».

 

marco bizzarri, francois henri pinault e steven zhang marco bizzarri, francois henri pinault e steven zhang

Ma Gucci da tempo non è più un marchio italiano.

«In Italia abbiamo tutti gli stabilimenti e 6 mila dipendenti. Abbiamo aperto a Firenze l’ArtLab per scarpe e borse e a Novara quello per i vestiti. L’italianità è nel gusto e nella cultura, non nella nazionalità dell’azionista».

 

Il film «House of Gucci» sulle disavventure della famiglia vi ha fatto bene o male?

«Ci ha lasciato indifferenti. Abbiamo aperto gli archivi al regista»

 

Ridley Scott è un grande.

«Sì, e ha scelto un cast stellare. Ma qualche stereotipo non mi ha convinto. L’Italia non è così, o non lo è più».

 

marco bizzarri marco bizzarri

Ha fatto incontrare Bottura e Michele?

«Sì. Un appuntamento alla cieca: nessuno sapeva di dover vedere l’altro. Dopo cinque minuti hanno cominciato a discutere di come realizzare insieme le osterie Gucci. A Firenze e a Los Angeles abbiamo già una stella Michelin».

 

Anche gli altri suoi figli sono cuochi?

«No, mio figlio Alessandro sta facendo un master in intelligenza artificiale a Modena, Federica studia fotografia a Milano. Sono stati all’estero, ma per fortuna sono tornati».

 

alessandro michele alessandro michele

Cos’è cambiato per voi con la pandemia?

«Si è aperta una nuova fase del viaggio. Con Alessandro Michele ci siamo detti che è di nuovo tempo di cambiare. Dobbiamo recuperare la nostra parte storica, iconica. In tempo di crescita il mercato chiede novità al limite della stravaganza; in tempo di crisi torna la tradizione. Cercheremo il giusto mix».

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