Cruciani: "Hai imbrattato il senato? Devi essere portato in un ospizio per dieci giorni a pulire la merda dei vecchi. Questi devono essere portati a pulire il culo ai vecchi invece che pensare alle minchiate, a salvare il mondo".@giucruciani #UltimaGenerazione #ClimateCrisis
— La Zanzara (@LaZanzaraR24) January 10, 2023
Max Del Papa per https://www.ilgiornaleditalia.it/
Cruciani in diretta alla Zanzara: “Hai imbrattato il Senato? Devi essere portato in un ospizio per dieci giorni e pulire la merda dei vecchi. Questi devono essere portati a pulire il culo ai vecchi invece che pensare alle minchiate, a salvare il mondo”.
Potrà suonare retorico ma sono parole sacrosante, garantisce uno che questa funzione l'ha svolta un anno intero. Sono ricordi lontani, adesso: fresco laureato, dovevo partire per la leva ma non avevo nessuna voglia di chiudermi in una caserma, lo consideravo un anno perso, poi giravano storie di nonnismo, di suicidi; decisi di puntare al servizio civile come obiettore di coscienza, ma non volevo perdere tempo in un altro modo, a fare il bibliotecario o roba del genere.
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Vicino casa mia c'era una comunità tra le più importanti in Italia, la Comunità di Capodarco di Fermo: scelsi quella e in agosto entrai. Non era uno scherzo, Capodarco era famosa e famigerata, un posto serio ma duro, anche un mondo a parte, siamo all'inizio degli anni Novanta, abitato da residenti con ogni genere di problemi, fisici e psichici.
La nuova leva di obiettori che raggiungono il villone sulla collina quella mattinata di agosto è sparuta, quattro in tutto (via via se ne sarebbero aggiunti sempre di nuovi, alla fine ci ritrovammo in una dozzina), ciascuno con qualche problema per così dire di adattamento: giovani, scolarizzati, viziati che si credevano ribelli.
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La prima cosa che vidi, fu una donna che spruzzava all'aperto lo spray contro le zanzare. Mormorai a quello che mi stava più vicino: io qui non ci resisto, devo trovare il modo di andarmene. Due giorni dopo ero, come gli altri, completamente inserito nella vita comunitaria e non mi presi, come anche tutti gli altri, neppure i giorni di licenza che mi spettavano: in quel posto dove le convenzioni per forza di cose erano ribaltate, mi sentivo a mio agio. Del resto, andavo e venivo quando volevo, tornare dalla mamma (con qualche collega) a prendere il caffè, facevo prima a farlo che a dirlo. Una volta chiarito che ero affidabile, non è che ti stessero addosso.
E “pulire il culo” fu solo una delle attività: mi diedero da gestire il bar, ogni mattina colazione per duecento persone fra residenti, gente che veniva a lavorare nei laboratori, noi obiettori, altri di passaggio. Osservavo anch'io il mio turno come lavapiatti, un giorno la settimana, e, avendo piede leggero, mi ritrovai pure fra gli autisti ufficiali: tra auto e furgone adeguatamente attrezzato per le carrozzine, quell'anno mi feci più o meno centomila chilometri girando tutta l'Italia: c'era sempre qualcuno da accompagnare da qualche parte, magari a casa sua, oppure, perché no, in gita.
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Ha ragione Cruciani: “pulire il culo” è un atto simbolico, è l'umiltà che si dimentica di se stessa, la routine cui nessuno più fa caso. A me capitò di farlo mentre fumavo, così come si pratica una azione qualunque, senza imbarazzo, senza formalità. Magari smadonnando, perché era il momento sbagliato, a notte fonda o dovendo interrompere un altro servizio.
Ma chi se ne importava? Tutto in quell'anno era faticoso, divertente, a volte drammatico. Non eravamo dei santi: idealisti sì, abbastanza, non saremmo finiti lì dentro, ma la matrice teppistica restava in ciascuno di noi: la notte, finita l'ultima corvée, “fuggivamo” a bordo di qualche auto senza meta, rincasando all'alba. Ovviamente i responsabili sapevano tutto. Non so quante volte mi è successo di rientrare e subito aprire il bar, senza neppure mezz'ora di sonno. Cose che a venticinque anni puoi fare, dopo no, dopo il fisico ti punisce.
Non erano dei santi neppure i residenti, non fu una passeggiata quell'anno di servizio civile, mai: dovevi saperci fare, sapere giostrare, dimostrarti disponibile, affidabile ma non troppo permeabile né servile: venivi subito infilzato, la punizione scattava inesorabile.
Niente di fisico, ovviamente, ma la frecciatina chirurgica, il commentino acido davanti a tutti erano implacabili. Se finivi preso di punta era finita, ho visto gente perdere i capelli in pochi mesi. Il segreto stava nel non rinunciare ad essere chi eri, pur in un contesto così delicato, così complicato. Crescere è adattamento e a volte, anche se allora era una parola inesistente, resilienza.
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Pulendo culi, e la faccenda va intesa nel senso più ampio possibile, noi crescevamo. Allevati da gente che non aveva le nostre possibilità fisiche, dalla mobilità impedita, e che, comprensibilmente, non andava per il sottile nella educazione da impartire a quei ragazzotti di passaggio.
Ma posso dire che, giovane presuntuoso senza nessuna esperienza di cose pratiche, imparai a gestire un bar grazie ad un burbero montanaro in carrozzina, che poi divenne il mio più caro amico a Capodarco. Posso dire che mi ritrovai responsabilizzato da una donna minuta, crocifissa a un girello, che chissà perchè aveva deciso di investire in me. Quell'anno io diventai adulto, cioè imparai a mettere le cose nel giusto ordine di priorità. C'erano urgenze che pretendevano una azione immediata, tutto il resto poteva, doveva attendere a partire dalle mie fisime, dalle rivendicazioni immature, dal narcisismo di un laureato che non aveva mai pulito non si dica un sedere, ma nemmeno una tazzina di caffè.
Mentirei se raccontassi adesso che dopo quell'anno io restai maturo: fu una parentesi, chiusa la quale la vita mi reclamò con tutte le sue trappole, il retaggio familiare, un luogo nel quale mi ero trasferito da Milano senza accettarlo, senza mai riuscire ad integrarmi. Dopo venne il mestiere di giornalista, coi suoi traumi, le sue storie violente da raccontare, a volte da vivere sulla pelle, ma questa è un'altra storia. D
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iciamo però che quell'anno sedimentò in me una consapevolezza destinata a sbocciare, faticosamente, tra mille passi falsi, ripensamenti, rimorsi, nel tempo a venire. Salvare il mondo? Non proprio, anche se all'epoca ci sentivamo diversi dai nostri coetanei, élite stracciona di un microcosmo che la società non poteva capire, tutto concentrato sulla cura dell'altro. Ma l'altro, fuor di sentimentalismo, eravamo noi e ricevevamo più di quanto potessimo offrire. Sono cose che si capiscono tardi. Salvare il mondo no, ma agire in un modo diverso in questo mondo squinternato, forse questo sì.
La nostra presunzione era mutata; Capodarco, come tutte le realtà solidali, era fortemente ideologizzata ma quasi nessuno di noi accettò di farne una questione politica, di lasciarsi condizionare moralmente. Sbandati di cuore eravamo, e lo restammo. E ci sono tanti episodi che non potrei mai raccontare, neppure sotto tortura. Ma quando mi ritrovo col mio collega più vicino, che oggi fa l'avvocato, tanta vita è passata eppure non smettiamo di tornare là, a quei turni massacranti, a quelle situazioni bizzarre, e esaltanti, e strazianti, che ci scavavano plasmando uomini diversi da quelli che saremmo stati senza un anno a Capodarco.
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Pulire culi non fu niente altro che vita, ma io quell'anno lo conservo come quello speso meglio nella mia vita. Non fu salvare il mondo ma mettere nel giusto ordine le priorità. Fu rendersi conto che il tuo ego non è niente, che sei più vulnerabile di quanto credi e puoi ritrovarti un bel giorno pure tu su una sedia a ruote. Altro che sverniciare i luoghi del potere o impedire il passaggio a chi va a lavorare, all'insegna della “protesta non violenta”. Cruciani ha ragione: lascia perdere i gesti eclatanti per metterti in mezzo, ci vogliono più palle per confrontarti con la banalità del bene, se la fragilità dell'essere umano può chiamarsi bene. Il mondo è un posto ingiusto, non lo salvi, non ti salva. Si salva lui da solo, però fare la tua parte, rompendo i coglioni più con l'esempio che con i pretesti, non è male.
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