MA COSA DOVEVA FARE PIÙ DI COSÌ PER SALVARSI? – IL TERRIBILE OMICIDIO DI JUANA CECILIA HAZANA, 34ENNE CHE VIVEVA A REGGIO EMILIA, UCCISA A COLTELLATE IN UN PARCO DALL’EX 24ENNE CHE AVEVA DENUNCIATO PER TRE VOLTE - L’UOMO ERA FINITO AI DOMICILIARI PERCHÉ LA PERSEGUITAVA, MA LA PENA ERA STATA SOSPESA QUANDO AVEVA DECISO DI PATTEGGIARE PROMETTENDO DI SEGUIRE UN PERCORSO DI RIABILITAZIONE: UN ASSURDO PARADOSSO DELLA LEGGE CHE… - LA MADRE DEL KILLER ERA STATA AMMAZZATA DALL'EX CONVIVENTE NEL 2015

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Niccolò Zancan per “La Stampa”

 

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Ma cosa doveva fare più di così, Juana Cecilia Hazana, per avere salva la vita? Aveva denunciato quel ragazzo tre volte. Aveva chiesto aiuto. Aveva chiamato la polizia dopo l'ennesimo agguato, quando lui era entrato in casa con uno stratagemma e l'aveva minacciata con un coltello. E quel ragazzo urlava, piangeva, diceva che si sarebbe ammazzato. È stato arrestato il 4 settembre, condannato per stalking il 3 novembre. Tutti sapevano tutto. Ma non è bastato. Per l'ennesima volta lo Stato ha perso la sua battaglia contro un maschio assassino.

 

Eccola, così, la vittima numero 103 dell'anno terrificante 2021: Juana Cecilia Hazana, 34 anni, origini peruviane, una vita in Italia, madre di un bambino piccolo, di mestiere badante. Accoltellata, anzi quasi sgozzata, in un parco pubblico, a pochi passi dal suo alloggio, esattamente da quella persona che aveva minacciato di farlo. Lui si chiama Mirko Genco, 24 anni, di Parma, piazzista a domicilio di telefonia. I carabinieri lo hanno fermato ieri al lavoro. Alle cinque di pomeriggio ha confessato. Anche lui associando alla ricostruzione dei fatti le solite parole senza senso: «Mi sono messo nei guai per amore».

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Fa impressione, adesso, un dettaglio biografico: l'assassino di Juana Cecilia Hazana è il figlio di Alessia Della Pia, uccisa a sua volta dall'ex convivente nel 2015. Quasi tutti i femminicidi sono delitti annunciati, questo di Reggio Emilia è un caso estremo. «Quella povera donna era perseguitata. Avevano avuto una storia di qualche mese. Da quando lei lo aveva lasciato, non viveva più.

 

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Ci trovavamo il ragazzo sulle scale, in cantina, dietro la siepe. Un incubo. Al punto che avevamo avvisato l'amministratore perché scrivesse a tutti i condomini di non aprirgli la porta», dice la signora Viola Pataccini. Lo sapevano i vicini casa, lo sapevano i giudici, lo sapevano i poliziotti, lo sapevano tutti a Reggio Emilia: quelle urla e quelle persecuzioni erano pubbliche.

 

Erano arrivate tre volanti, con sei agenti, per portarlo via di peso. Ecco il titolo del Resto del Carlino del 4 settembre: «Continuava a tormentare la sua ex. Arrestato». E dopo l'arresto, ecco il divieto di avvicinamento, che Mirko Genco aveva subito violato. Quindi i domiciliari come misura cautelare: l'obbligo di stare in casa. Sembrava l'unico modo, e sembrava funzionare. I due fascicoli per stalking erano confluiti in un procedimento penale. La causa affidata al pm Piera Cristina Giannusa, al giudice Donatella Bove, all'avvocatessa Alessandra Bonini. Ma accade questo: Mirko Genco patteggia la pena.

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Il cosiddetto «codice rosso» entrato in vigore nel 2019, proprio per tutelare le vittime di questo genere di reati, gli permette il patteggiamento a una condizione: dovrà seguire un percorso di riabilitazione psicologica. E che cosa dice il codice? Che la pena, in quel caso, è sospesa. Fine delle misure cautelari: niente più domiciliari. Condannato a due anni da una giustizia solerte, altrettanto in fretta Mirko Genco si ritrova libero a norma di legge.

 

È questo il paradosso. «Aveva fatto due colloqui con la psicologa», dice adesso l'avvocatessa Bonini. «Ma questa bruttissima storia si è conclusa nel modo peggiore». La condanna risale a due settimane fa. La sera di venerdì 19 novembre, Mirko Genco raggiunge l'ex fidanzata Juana Cecilia Hazana in un locale messicano di Reggio Emilia, si chiama «Hot Chili». Qui ormai ci sono soltanto le sue parole, assurde e senza possibilità di contraddittorio, rese durante la confessione: «Io e Juana ci siamo allontanati a piedi, lungo la strada ci siamo abbracciati. Poi lei, all'altezza del parco della Polveriera, mi ha detto una cosa molto brutta, allora io l'ho spinta a terra e l'ho colpita con dei pugni».

 

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«E il coltello?», hanno domandato gli investigatori. «Ho preso le sue chiavi e sono salito a casa, ho trovato quel coltello sul tavolo della cucina, sono tornato giù e». Difficile credere a questa ricostruzione. Poi, ancora, quelle parole senza senso: «Ero innamorato, volevo tornare con lei». No, quello che si vede adesso è il fallimento dell'intero sistema giudiziario italiano, si vede la mancata protezione di una donna in pericolo e si vede anche il filo teso di una violenza annunciata e persino tramandata come una nemesi. Ieri alle nove, una signora che abita vicino al parco della Polveriera ha visto fra le foglie un telefono che trillava e vibrava. Era la vita che chiamava. Era una anziana madre in pena. Era il pianto di un figlio di un anno e mezzo. Il telefono non smetteva di suonare. Pochi metri oltre c'era il cadavere di Juana Cecilia Hazana.

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