Mattia Feltri per “la Stampa”
In questi giorni ostinatamente luttuosi, tutti abbiamo trascurato colpevolmente Ágnes Heller. Aveva novant' anni, amava nuotare, venerdì si è immersa nel lago Balaton e non è tornata. Era nata ebrea a Budapest nel 1929. Durante la Seconda guerra mondiale, il padre - che aveva rifiutato la conversione al cattolicesimo con cui forse sarebbe scampato ad Auschwitz, e da cui infatti non scampò - la incoraggiava a uscire anche se era rischioso perché la libertà non è la sicurezza. Fu rinchiusa nel ghetto ebraico.
La salvò l'arrivo dei russi. Divenne allieva del filosofo György Lukács e come lui criticò lo stalinismo e appoggiò la rivoluzione ungherese del 1956. Lukács fu deportato in Romania, lei fu espulsa dall'Università. Analizzò l'etica di Lenin e si persuase che Lenin, come Hitler, non avesse un'etica.
Condannò la repressione di Praga del 1968, fu accusata di negazionismo della rivoluzione d'ottobre, fuggì in Australia, abbandonò il marxismo e qualsiasi altro -ismo, a New York ereditò la cattedra di Hannah Arendt, appoggiò il progetto liberale dell' Unione europea, fu amica e sostenitrice di George Soros e biasimò duramente i partiti tradizionali, incapaci di capire la crisi della democrazia, di rinnovarsi e di offrire soluzioni, definì il terrorismo islamico un nuovo nazismo, incoraggiò l'Europa a essere ospitale e caritatevole coi migranti, si dichiarò nemica irriducibile di Viktor Orbán, di ogni sovranismo e ogni populismo. Era uscita di casa ragazzina - nonostante il pericolo di essere arrestata dai nazisti, perché la libertà non è sicurezza - e non rincasò mai più.