DI PENNE E DI PISELLI - JEAN LORRAIN, IL DAGOSPIA FIN DE SIÈCLE, PIÙ CHE PER I VERSI ERA NOTO PER AVER CHIACCHIERATO LE CHIAPPE DI MARCEL PROUST – ERA IL 1897 QUANDO CON UNA STRONCATURA DELL'OPERA PRIMA DI PROUST, LORRAIN ALLUDEVA ALLA SUA OMO-INTIMITÀ CON LUCIEN DAUDET - SI SCATENO' UN DUELLO A COLPI DI PISTOLA CHE…

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Daniele Abbiati per “il Giornale”

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Il motto è pesante, greve, «scorretto». Tuttavia perfetto per illustrare l' ipocrisia di chi (eufemizziamolo, deformandone un po' il contenuto) tira il sasso e nasconde la mano. Il motto dice: «son tutti bravi a fare i froci col culo degli altri». Alcuni omosessuali lo detestano, considerandolo discriminante, altri, sorvolando la metafora e atterrando sul messaggio, ne apprezzano la cruda franchezza, che naturalmente esula dalle tendenze sessuali.

 

Ciò accade oggi, nel 2019. Ma più di un secolo fa, nonostante il motto non fosse stato ancora coniato, qualcuno, nella Francia della Belle Époque, ne fu il... vessillifero. Nella forma e nella sostanza.

 

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Si chiamava, anzi si faceva chiamare, Jean Lorrain, ma per l' anagrafe di Fécamp, dov' era nato il 9 agosto 1855, suonava Paul Alexandre Martin Duval. A ribattezzarlo, dietro specifica richiesta dell' interessato, era stata sua madre Pauline Mulat (le madri dei gay hanno spesso una marcia in più, e se non ce l' hanno, devono inventarsela, quelle sante donne), moglie dell' armatore Amable Duval. Non voleva, il buon Paul Alexandre Martin, far pesare sulla famiglia i suoi comportamenti tutt' altro che in linea con la morale e con il buonsenso.

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Truccarsi come una decrepita matrona, drogarsi, frequentare debosciati e malviventi, bere come una spugna e sparlare di questa e di quello a ogni angolo di strada, non erano abitudini apprezzate dall' integerrimo padre. Lui, Paul Alexandre Martin alias Jean, da parte sua non aveva apprezzato l' esperienza di qualche mese nel corpo degli Ussari, e neppure gli studi di diritto a Parigi.

duello duello

 

Così, dopo le prime esperienze poetiche (e anche altre, molto prosaiche...) sui trent' anni aveva deciso di darsi alla scrittura, influenzato dal circolo degli «Hydropathes» di Émile Goudeau, oltre che da Barbey d' Aurevilly. In breve, era diventato una sorta di gazzettiere-commentatore-interprete della scandalosa vita bohémiene nella capitale, come il suo corrispettivo femminile Marguerite Eymery, alias Rachilde.

 

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Tornando al punto da dove siamo partiti, cioè alle terga altrui, Jean Lorrain è noto, ai cultori della letteratura «alta», più che per i versi, i romanzi, i racconti, le cronache mondane, le pièce teatrali che sciorinò in circa un ventennio di febbrile attività, per aver messo nel mirino, in senso figurato, il posteriore di un suo giovane collega all' epoca ancora vergine di successi, ma destinato a fama imperitura: Marcel Proust. E forse, se vogliamo giudicare a nostra volta a posteriori (ma, si spera, non con il deretano), tutto sommato rendendogli involontariamente un favore.

 

Il «caso» scoppia nel febbraio 1897. Il giorno 3 Le Journal pubblica, a firma Raitif de la Bretonne, una stroncatura dell' opera prima di Proust, Les Plaisirs et les Jours, una raccolta di poemi in prosa e di racconti uscita da poco.

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«Pesanti malinconie», «elegiache svenevolezze», «inani flirt in stile prezioso e pretenzioso» sono parole che sembrano complimenti se confrontate con l' affondo gossiparo: «Nondimeno Marcel Proust ha avuto la prefazione di Anatole France, che non ha prefatto né Marcel Schwob, né Pierre Louÿs, né Maurice Barrès; ma così vanno le cose a questo mondo e sono certo che, per il suo prossimo volume, Marcel Proust otterrà la prefazione di Alphonse Daudet, dell' intransigente Alphonse Daudet, proprio lui, che non potrà rifiutarla né a madame Lemaire (Madeleine Lemaire, l' illustratrice del libro, ndr), né a suo figlio Lucien».

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In cauda venenum. Poiché l' intimità fra Lucien Daudet e Marcel Proust era già sulla bocca e nelle orecchie di molti. Insomma, il non fantomatico «Raitif» che omaggiava, corrompendolo, il poligrafo libertino de la Bretonne, non soltanto lancia il sasso e nasconde la mano, ma accusa non velatamente il venticinquenne Proust di indulgere nel vizio che lui, Jean Lorrain, chi sennò, il Dagospia fin de siècle, conosce a menadito. Proust, offesissimo, prende cappello e sfida a duello Lorrain.

 

Il redde rationem avviene tre giorni dopo, il 6 febbraio, in una mattina piovosa, nella foresta di Meudon, alle porte di Parigi. E per fortuna tutto si risolve con un paio di maldestre pistolettate a testa che causano soltanto urla isteriche e qualche danno ai malcapitati alberi circostanti. I quattro testimoni dichiarano nullo il confronto. Tutti a casa, nemici come prima, ma sani e salvi.

 

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Spostandoci dalla cronaca potenzialmente nera a ciò che qui più conta, cioè la letteratura, la recentissima uscita di Colloquio sentimentale e altre prose inedite (Via del Vento, pagg. 38, euro 4, cura e traduzione di Angela Calaprice) che comprende tre racconti di Jean Lorrain tratti dalla raccolta L' école des vieilles femmes (altra citazione, della commedia di Molière La scuola delle mogli) ci aiuta a comprendere da quale pulpito provenissero le frecciate rivolte al povero Proust, nell' inverno del 1897.

 

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Ora, se pensiamo alle meraviglie architettoniche di quella cattedrale di parole che è la Recherche, ci vien voglia di...

scomunicare don Lorrain. Se invece pensiamo proprio a I piaceri e i giorni, dove Proust sta ancora costruendo la sua prosa esercitandosi sul materiale grezzo della quotidianità, del giorno per giorno, delle performance d' occasione, dove cioè non è ancora entrata in scena la vera protagonista del suo capolavoro, la Memoria, allora la prospettiva cambia, e di molto.

 

Certo, da una parte abbiamo un esordiente e dall' altra un prepensionato (per motivi di salute) che esercita la sua caustica penna sul demi-monde della Costa Azzurra, nei primissimi anni del Novecento (L' école des vieilles femmes uscì nel 1905). Ma, pur considerando lo scarto di 23 anni fra i due autori, l' affinità dei temi e degli sguardi, più condiscendente quello di Marcel, più sarcastico quello di Jean, la sensibilità nel cogliere l' universale dal particolare, il piacere di crogiolarsi, dal proprio distaccato angolo d' osservazione, nei riflessi dei patetici sotterfugi e degli inconfessabili segreti dei personaggi, è una curiosa scoperta.

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La principessa Dostéwianoff che perde la testa per il precettore dei suoi figli; la marchesa de Fleurigneuse che s' incapriccia di un conte brasiliano (!) più ladro che nobile; soprattutto la signora Borrusset che, rimasta vedova una prima volta, deve fare il bis con l' affascinante ma cagionevole secondo marito, da lei visto per la prima volta il giorno in cui, vent' anni prima, da impiegato delle pompe funebri s' era occupato della salma del suo primo consorte...

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Queste stagionate e tormentate cougar da operetta non sfigurerebbero nel carniere del primo Marcel Proust. Ecco perché possiamo ipotizzare, omaggiando così un minore a petto di un super classico, che anche le male parole di Jean Lorrain hanno contribuito, spronandolo a scrollarsi di dosso «pesanti malinconie», «elegiache svenevolezze» e «inani flirt», a fare di un aspirante scrittore un genio assoluto.

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