PERCHÉ FRANCESCO SCHIAVONE DECIDE DI PENTIRSI DOPO 26 ANNI AL 41 BIS? ROBERTO SAVIANO: “SE NON SI PENTE NON USCIRÀ MAI. SI TROVA A UN BIVIO: CONSERVARE LA PROPRIA LEADERSHIP MANTENENDO IL SILENZIO O PERDERLA PER SEMPRE PARLANDO. MA NON SIGNIFICA CHE RIVELERÀ CIÒ CHE VOGLIAMO SAPERE DA LUITEMO CHE SFRUTTI L’ATTUALE DEBOLEZZA DEL NOSTRO STATO CHE NON PONE NESSUNA CENTRALITÀ AL CONTRASTO DELL’ECONOMIA MAFIOSA. RIVELERÀ SOLTANTO OMICIDI E QUALCHE APPALTO, MA NON SVELERÀ IL TESORO DEL CLAN, NON SVELERÀ LE COPERTURE POLITICHE. IL PERICOLO PIÙ GRANDE È CHE LE ORGANIZZAZIONI ABBIANO CAPITO DA MOLTI ANNI CHE LO STATO VUOLE POTER COMUNICARE IL PENTIMENTO DI UN BOSS COME…”

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1. SANDOKAN VUOLE PARLARE SI PENTE IL "RE" DEI CASALESI

Estratto dell’articolo di F.B. per il “Corriere della Sera”

 

francesco schiavone francesco schiavone

Venti giorni fa, forse qualcuno in più. Comunque meno di un mese. Dal carcere di Parma, dove sta scontando quattordici ergastoli in regime di 41 bis, Francesco Schiavone chiede di parlare con un magistrato, uno in particolare: il capo della Direzione nazionale antimafia Giovanni Melillo. Sarà a lui, quando poi lo incontrerà, che annuncerà la decisione di collaborare con la giustizia. Da boss più rappresentativo dei clan casalesi a pentito. A settant’anni di età e dopo ventisei di detenzione. E con una famiglia che per metà — la moglie e due figli — ha già imboccato il percorso dove lui ora comincia a muovere i primi passi.

 

La storia della camorra casalese — o, per meglio dire, della mafia casalese, vista la vicinanza con le famiglie corleonesi e con i Nuvoletta, storici alleati napoletani di Cosa nostra — l’ha scritta tra il 1998 e il 2010 il processo Spartacus, con oltre cento imputati e sedici verdetti di fine pena mai confermati in Cassazione. Ma Francesco Schiavone, il boss soprannominato Sandokan , può aggiungere capitoli o note d’appendice.

 

FRANCESCO SCHIAVONE DETTO SANDOKAN FRANCESCO SCHIAVONE DETTO SANDOKAN

Perché pure se quel processo spianò come un rullo compressore il potere criminale delle famiglie di Casale di Principe e dintorni, e seppure chi all’epoca era latitante, come Antonio Iovine (un altro che ha scelto di collaborare) e Michele Zagaria, è poi finito in carcere, insomma, pure se tutto è cambiato da quando «Sandokan» governava una azienda criminale dai bilanci miliardari, lui quella storia l’ha fatta fin dall’inizio. E ne conosce ogni dettaglio non soltanto fino all’11 luglio 1998, il giorno in cui dovette arrendersi agli uomini della Dia che sfondarono le pareti del suo bunker e lo ammanettarono.

 

FRANCESCO SCHIAVONE DETTO SANDOKAN FRANCESCO SCHIAVONE DETTO SANDOKAN

«Sandokan » sa tutto anche di quello che i suoi affiliati e i suoi familiari hanno continuato a fare dopo il suo arresto. Può contribuire a fare luce su qualche omicidio ancora irrisolto e rivelare dettagli inediti su alleanze o rivalità criminali, ma da lui i magistrati si aspettano molto di più. Si aspettano informazioni utili in inchieste e processi che, a differenza di Spartacus, non hanno ancora esaurito il loro percorso. E ce ne sono. Soprattutto filoni investigativi dedicati al versante imprenditoriale dei clan casalesi. Le attività nell’edilizia, il reimpiego di ingenti capitali in operazioni imprenditoriali. E in primo luogo i grandi appalti nelle opere pubbliche, dove i casalesi si sono sempre mossi come soci occulti di imprese affidate a prestanome più o meno insospettabili.

[…]

 

SCHIAVONE HA DECISO DI ABDICARE, MA LE COSE IMPORTANTI (FORSE) NON LE SVELERÀ

Estratto dell’articolo di Roberto Saviano per il “Corriere della Sera”

FRANCESCO SCHIAVONE DETTO SANDOKAN FRANCESCO SCHIAVONE DETTO SANDOKAN

Avevo 19 anni, era pieno luglio, e calò un clima di paura e ansia a Casal di Principe e in tutta la provincia casertana. Il re del clan Francesco Schiavone era stato preso. Era il 1998, a nessuno sembrò una fine ma solo un avvicendamento di potere. E infatti fu così: rimase re, anche in carcere in questi quasi tre decenni. […] Perché solo ora decide di parlare? Perché dopo quasi 30 anni?

 

La scelta

ROBERTO SAVIANO AL SALONE DEL LIBRO DI TORINO ROBERTO SAVIANO AL SALONE DEL LIBRO DI TORINO

La risposta è una. Schiavone è vicino a scontare la totalità della sua pena ma sa che se non si pente non uscirà mai. Si trova a un bivio: conservare la propria leadership mantenendo il silenzio o perderla per sempre parlando. Decidendo di collaborare con la giustizia ha fatto la sua scelta, non è più il capo. Ma è bene averlo chiaro, non significa affatto che davvero rivelerà ciò che vogliamo sapere da lui. Prima di lui, al pentimento è arrivato il suo primogenito Nicola, che porta il nome di suo nonno e che avrebbe dovuto ereditare il potere di Sandokan senza mai riuscirci.

 

Ad oggi le sue rivelazioni non sembrano essere così determinanti. Stessa cosa per sua moglie, Giuseppina Nappa, e per l’altro figlio Walter: collaborano ma non sembrano aver svelato nulla di quello che ci aspettavamo. Il pericolo più grande è che le organizzazioni abbiano capito da molti anni che lo Stato vuole poter comunicare il pentimento di un boss come un’immediata vittoria e poi quello che dicono, il poco che dicono, non importa. Si vende mediaticamente una vittoria che di fatto non c’è.

 

francesco schiavone 2 francesco schiavone 2

[…] Nel 2010 provai, con un articolo pubblico, a chiedere a Schiavone-Sandokan di pentirsi: lo invitai a farlo per salvare i suoi figli, tutti pronti a una vita di ergastolo. Non lo fece. Lo fa ora, probabilmente in un momento in cui il clan è in grande agonia, un’agonia dovuta, da un lato a quel capolavoro d’inchiesta giudiziaria che è stata il processo Spartacus, e dall’altro alla luce mediatica accesa su di loro. Non riescono più a gestire i loro affari.

 

La storia di Schiavone-Sandokan

Sapete davvero chi era Sandokan? Cosa posso raccontarvi in poche righe? Val la pena raccontare come divenne re. Figlio di don Nicola, che conosco bene, fu l’unico uomo mandato in piazza a Casal di Principe a sfidarmi, e a dirmi in faccia che ero un buffone. Era un imprenditore agricolo, un mandriano, «guappo», ma non un vero e proprio camorrista. Ciccio, questo era il nome di Francesco Schiavone, prima del suo epico soprannome, si iscrive a medicina senza laurearsi, è destinato a essere un imprenditore come il padre.

francesco schiavone 3 francesco schiavone 3

 

Appartiene però a quella generazione casertana che sta scalando le vette perl’assalto al cielo dell’economia italiana. È la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, Casal di Principe, San Cipriano D’Aversa e Casapesenna sono il cuore pulsante del cemento armato e, cioè, dell’edilizia camorristica che costruisce mezza Italia. L’alta velocità, gallerie autostradali, assi mediani, e poi ancora condomini, fabbriche, centri commerciali e, ancora, pompe di benzina, discariche, trasporto su gomma e su ferro, tutto questo erano e sono il clan dei casalesi.

 

francesco 'sandokan' schiavone e il figlio nicola schiavone francesco 'sandokan' schiavone e il figlio nicola schiavone

[…] Non riuscirà mai a essere l’unico leader dell’organizzazione. Sarà sempre una diarchia, da un lato Sandokan, dall’altra Cicciotto di mezzanotte ossia Francesco Bidognetti. Schiavone sintetizza in sé due qualità criminali — le uniche due — che permettono a un camorrista di essere un leader: capacità imprenditoriali e capacità militari. Da un lato, è un feroce e sanguinario assassino, capace di ordinare l’esecuzione di un uomo perché ha corteggiato una sua nipote e di organizzare un corteo armato con fucili d’assalto in pieno giorno per cacciare le famiglie rivali da Casal di principe. Ma al contempo, è capace di costruire il più grande zuccherificio del Mediterraneo e, insieme a Bidognetti, edificare il sistema di smaltimento illegale di rifiuti tossici e urbani più importante della sua epoca.

 

francesco schiavone 4 francesco schiavone 4

Nel 2005, Sandokan scrisse a un giornale locale (il sistema dei giornali locali è sempre stato utilizzato da Sandokan per veicolare informazioni e dare messaggi) che volentieri scontava i suoi ergastoli pur di non mangiare «carne umana» come fanno i collaboratori di giustizia che per ottenere libertà, diceva, raccontano storie e fanno nomi obbedendo solo alle richieste dei magistrati e non alla verità dei fatti. Sembra aver cambiato idea.

 

Quando i poliziotti lo arrestarono in via Salerno, entrarono nella sua villa e per dodici ore non trovarono nulla. Fu solo l’intuizione del poliziotto che comandava l’operazione che vide nel canile due strani tubi. Erano due sfiatatoi. Nei tubi fece sparare dei gas lacrimogeni e dopo pochi secondi si sentì un urlo. «Smettetela! Ci sono le bambine!». Sandokan aveva costruito un bunker in cemento armato sotto casa sua, praticamente inaccessibile. Né ruspe, né martelli pneumatici avrebbero permesso di scovarlo perché non era nascosto dietro tramezzi o controsoffitti.

 

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I casalesi, che sono all’avanguardia nelle costruzioni edili, i propri bunker li edificano nel cemento armato. E solo con lo stratagemma del gas è stato possibile sorprendere il boss. I suoi numerosi figli, da Nicola il primo a Ivanhoe il più piccolo, passando per le due gemelle che stavano con lui il giorno della cattura, sono cresciuti senza padre ma nel mito di Sandokan.

 

L’unico capo in grado di avere un diretto referente politico ai vertici dello Stato, il sottosegretario all’economia Nicola Cosentino, attualmente in carcere. L’unico capo capace, come accadde nel 1992, di decidere di far cadere il partito che sempre aveva sostenuto — la Democrazia Cristiana — e far vincere il partito liberale che a Casal di Principe prendeva l’1% dei voti e quando si candidò l’avvocato del clan Martucci prese il 30%.

 

Cosa dirà ora?

roberto saviano roberto saviano

Cosa dirà Sandokan ai magistrati? Temo che sfrutti l’attuale debolezza del nostro Stato che non pone nessuna centralità al contrasto dell’economia mafiosa. Di conseguenza rivelerà soltanto omicidi e qualche appalto, ma non svelerà il tesoro del clan, non svelerà le coperture politiche, non svelerà l’origine criminale di diversi noti imprenditori italiani (editori, costruttori, finanzieri). Chi studia il potere della camorra conosce benissimo il Dna di questi ultimi che ho appena citato ma sente la carenza delle indagini, la difficoltà, l’arrancare dello Stato che vedrebbe — se ci fossero vere e approfondite indagini — collassare una parte corposa dell’imprenditoria del proprio paese. Sandokan svelerà tutto questo?

 

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Davvero indicherà dove si trovano i soldi? Spero di sì. Ma non ho convinzione che accada. Sono persuaso sfrutti la distrazione per ottenere vantaggio. Sandokan non è l’antistato. La camorra e la mafia non sono l’antistato, sono una parte dello Stato. È importante essere chiari su questo: le mafie sono una parte integrante dello Stato e sono contrastate da un’altra sua frazione. Nello spazio fra questi due poli, vi è la più ampia fetta di Stato che, a seconda del proprio vantaggio, ondeggia tra la repressione, la complicità e, più spesso, l’indifferenza.

 

Non so come finirà questa storia. Penso a quei pochi procuratori e politici e a quei rari giornalisti che in questi anni si sono impegnati e schierati contro il clan. A nessuno verrà dato merito. Riconoscere merito significherebbe per molti — istituzioni e società civile — attestare la propria codardia. La mia più grande paura è che possa sembrare una resa, ma che in realtà stiano ancora vincendo, proteggendo i propri soldi, evitando gli ergastoli e accordandosi con i nuovi capi. Le organizzazioni criminali sono l’economia vincente del nostro paese. Tutti sembrano esserselo dimenticato.

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