"FAVORI AI CLAN QUANDO ERA A REGGIO CALABRIA" - AGLI ARRESTI LA DIRETTRICE DELLA SEZIONE FEMMINILE DI REBIBBIA, MARIA CARMELA LONGO - C'ERA UN PATTO NON SCRITTO TRA DETENUTI E DIREZIONE: I BOSS GESTIVANO LA STRUTTURA A MODO LORO IN CAMBIO DI TRANQUILLITÀ INTERNA - TENEVANO LE FILA SULLE DESTINAZIONI DEI DETENUTI, LE ATTIVITÀ, IL LAVORO ESTERNO E ANCHE IL VITTO - UN PENTITO: "ERA UNA PACCHIA LA DETENZIONE NEL CARCERE DI REGGIO CALABRIA" - OGNI RECLUSO FREQUENTAVA CHI VOLEVA E POTEVA TELEFONARE ALL'ESTERNO NON ERA UN PROBLEMA. I CERTIFICATI MEDICI AGGIUTATI PER...

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Alessia Candito per “la Repubblica - Edizione Roma”

 

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La conoscevano come funzionaria integerrima, scrupolosa, puntigliosa nell' osservare regole e procedure. Ma ieri mattina, della direttrice della sezione femminile di Rebibbia Maria Carmela Longo, chi con lei nell' ultimo anno ha lavorato ha scoperto un' altra storia e un' altra faccia.

 

Per i magistrati della procura antimafia di Reggio Calabria che la accusano di concorso esterno e per questo per lei hanno chiesto e ottenuto i domiciliari, è stata Longo ad aver garantito favori, elargito concessioni, permesso incontri e regolari eccezioni alle regole a boss di clan storici della ' ndrangheta, detenuti nel carcere di San Pietro. Il più grande della città calabrese dello Stretto, uno dei più importanti di tutta la Calabria, dove dietro le sbarre finiscono spesso i pezzi da novanta dei clan imputati nei processi che si celebrano in città. Maria Grazia Longo quel carcere lo ha diretto per 15 anni.

 

Un' eternità, si vantava lei negli anni scorsi, quando su sua richiesta stava per prendere servizio a Rebibbia.

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Ma per i pm Stefano Musolino e Sabrina Fornaro è proprio in quegli anni che gregari, luogotenenti e generali delle più importanti cosche cittadine hanno goduto di un regime privilegiato.

 

L' inchiesta parla di detenuti che avrebbero dovuto essere trasferiti rimasti in cella, di relazioni funzionali a scarcerazioni o regimi meno restrittivi garantite da certificati medici opinabili, di inspiegabili permessi e incontri garanti agli uomini dei clan. C' è tutto questo nell' ordinanza firmata dal gip di Reggio Calabria, Domenico Armaleo. Se la Longo si aspettasse di essere scoperta non è dato sapere. Ma chi la conosce e con lei ha lavorato gomito a gomito, racconta di un agosto passato in ufficio a Roma, di settimane di nervosismo e tensione e di una sempre più manifesta voglia di tornare a Reggio Calabria.

 

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Eppure era stata lei a decidere di concorrere per quel posto da direttrice della sezione femminile del carcere di Rebibbia, che con l' esperienza e le qualifiche accumulate ha ottenuto senza difficoltà. «Ho bisogno di nuovi stimoli» spiegava a chi glielo chiedesse, quasi stupito per quella scelta che i più consideravano un passo indietro in carriera. Una decisione curiosa che adesso inizia a sembrare una fuga.

 

 

2 - UN PATTO TRA I BOSS MAFIOSI E LA DIRETTRICE DEL CARCERE «QUI DENTRO È UNA PACCHIA»

Carlo Macrì per il “Corriere della Sera”

 

C'era un patto non scritto tra detenuti e direzione all'interno del carcere di San Pietro, a Reggio Calabria. I boss gestivano la struttura a modo loro, autorizzati dalla direttrice Maria Carmela Longo, arrestata martedì e posta ai domiciliari, con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. La struttura ne guadagnava in termini di tranquillità interna, che veniva appunto imposta a tutti i detenuti dai boss, come regalo da fare alla direttrice. Il comportamento pacifico dei detenuti le serviva per redigere report sulla qualità della vita all'interno del carcere.

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Erano soprattutto i boss di Reggio Calabria che tenevano le fila, gestivano le destinazioni dei detenuti, le attività, il lavoro esterno e anche il vitto. L'ordinanza di arresto per Carmela Longo, che attualmente dirigeva la sezione femminile del carcere di Rebibbia, è stata firmata dal gip Domenico Armoleo, su richiesta dei pm Stefano Musolino e Sabrina Fornaro. I fatti contestati si riferiscono al periodo 2015-2019. Quello della direttrice viene definito dal gip un «atteggiamento ben lontano dal ruolo istituzionale ricoperto».

 

La funzionaria ha, di fatto, consegnato il carcere ai detenuti «organici ai clan mafiosi egemoni sul territorio di Reggio Calabria». Con Carmela Longo sono indagati alcuni agenti penitenziari e il medico del carcere Antonio Pollio. Quest' ultimo si sarebbe prestato, su richiesta della direttrice, a redigere un certificato medico falso per favorire la detenuta Caterina Napolitano impedendole così di presenziare a un processo in cui era chiamata a testimoniare.

 

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«Era una pacchia trascorrere la detenzione nel carcere di Reggio Calabria» ha raccontato il collaboratore di giustizia Mario Gennaro, vicino ai boss di Archi, terra dei De Stefano. È proprio il clan che va per la maggiore in città con i comuni alleati Libri, Condello e Tegano, che gestiva l'ordinario trascorrere della detenzione. Erano loro che decidevano la collocazione nelle celle tenendo per sé i «cubicoli», celle più spaziose e con un bagno più grande. Erano sempre loro che decidevano le destinazioni in altri istituti carcerari di detenuti calabresi.

 

Nel carcere di San Pietro anche i detenuti di massima sicurezza potevano tranquillamente passeggiare nei corridoi, diventati una sorta di «agorà», dove ogni recluso era libero di frequentare chi voleva. Anche telefonare all'esterno non era un problema. Insomma, secondo i magistrati, c'era un solido rapporto di amicizia tra i boss reggini e la direttrice. Stessa cosa con alcuni agenti penitenziari, stretti collaboratori della Longo.

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I sovrintendenti Fabio e Massimo Musarella, per esempio, avevano il compito di aggiustare i certificati medici per favorire i detenuti e si occupavano di correggere le domande di trasferimento da una cella all'altra. Sempre sotto dettatura dei boss. Non è la prima volta che il carcere di Reggio finisce sotto i riflettori. All'inizio degli anni '80, furono arrestati il direttore Raffaele Barcella e dieci agenti di polizia penitenziaria. Un'ispezione del ministero accertò l'allegra gestione all'interno della struttura. Nelle celle, all'epoca, vennero trovate casse di champagne, aragoste e capretti. Mentre Paolo De Stefano, boss di Archi, andava in giro con la pistola alla cintola.

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