"PAOLO, E' TUA MADRE" - QUANDO PAOLO SORRENTINO HA VISTO TERESA SAPONANGELO CON IN TESTA LA "COFANA ANNI 80", NON HA AVUTO DUBBI E LA RESPONSABILE DEL CASTING HA LANCIATO IN URLO IN LACRIME - "C'ERANO PARECCHIE COSE DA RESTITUIRE: RENDERE PERFETTO L'AMORE IMPERFETTO TRA LEI E IL MARITO" - COME IL REGISTA, TERESA E' RIMASTA ORFANA: "A DUE ANNI. MIO PADRE MORI' IN UN INCIDENTE SUL LAVORO, ERA MARINAIO MA IL SUO SOGNO ERA FARE L'ATTORE" -  E POI MARADONA, BASSOLINO, IL GIOCO CON LE ARANCE E UNA PROMESSA: "CON LA COFANA MAI PIU'"

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Gabriele Romagnoli per “D – Repubblica”

 

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"È tua madre!", gridò in lacrime la responsabile del casting di Paolo Sorrentino. Lui aveva scelto Teresa per il ruolo, dandole un incarico e un destino. L’incarico era quello di far rivivere per lo spazio di un film quella donna con cui aveva in comune l’allegria e la malinconia, di restituire la sua sofferenza e rigiocare i suoi scherzi. Di usare la mano per accarezzare ancora una volta il figlio, ma soprattutto per far volare, e cadere mai, le arance.

 

Il destino era quello di rivelare alla platea non ancora consapevole, che c’era un’attrice vera e diversa, sullo sfondo di Napoli, scesa da Monte di Dio con la stessa modestia con cui, seduta in un bar di Roma, Teresa Saponangelo dice: «Una svolta? Forse. Molti, i più, è come se mi conoscessero da oggi, come se sullo schermo fossi appena nata».

 

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Invece è nata a Taranto più di quarant’anni fa, e come Sorrentino è rimasta orfana.

«A due anni. Ero troppo piccola per rendermi conto. Mio padre morì in un incidente sul lavoro, era marinaio. Cadde sul rimorchiatore, batté la testa, non tornò più a casa. È stato irreale. Me ne resi veramente conto solo anni dopo. Con mia madre andavamo periodicamente alla Cassa marittima a rinnovare la pratica per il sussidio a cui avevamo diritto. Dalla documentazione sbucò un trafiletto di giornale con una breve descrizione dell’accaduto: il suo nome, “lascia due figli”, la più piccola ero io».

 

Nient’altro, un rigo appena?

«Un fantastico book fotografico. Mio padre se lo fece fare perché il suo sogno era fare l’attore».

 

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Un attimo, sta entrando dalla porta Freud e dice: tutto si tiene...

«È stato più complesso di così. Mio padre era più complicato di così. Voleva anche cantare, nelle foto sta davanti al microfono, elegantissimo. Lo era sempre. Andava al porto per lavorare con la giacca e il dolcevita. Quel mestiere era un ripiego, trovato da mio nonno materno. Lui voleva fare, anche, l’aviatore, poi mise incinta mia madre. Avevano diciannove anni, si sposarono, lui affrontò la vita che gli toccava».

 

Aveva una bella voce? L’ha mai sentita?

«Macchè. C’era un’incisione su una cassetta, perché partecipò a un concorso, ma mia madre ci ha registrato sopra. Lei è così, sbadata».

 

A occhio, una bella coppia: vanno in finale con i genitori di Sorrentino.

«Ho trovato anche le loro lettere, perché lui da marinaio all’inizio viaggiò molto, nei mari del Nord. Scriveva anche poesie, le sue lettere sono bellissime, in italiano perfetto. Quelle di mia madre, insomma. Glielo dico sempre: “Avesse vissuto, un giorno ti avrebbe lasciato”».

 

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Lo ricordavate spesso?

«Pochi racconti, sempre gli stessi. All’epoca non si condivideva molto. Essere orfani non era una cosa da raccontare. C’era una sorta di…».

 

Omertà? Pudore del male, del dolore?

«Sì. Lasciammo Taranto per Napoli, dove viveva la nonna materna. E lì, oltre a lei, mi accolse il destino. Perché casa sua aveva lo stesso ingresso del teatro Politeama. Io vedevo passare tutta la gente del teatro, mi facevano entrare gratis. Ho visto cose meravigliose: una prova generale della

 

La gatta cenerentola di De Simone a cui eravamo in quattro, la Melato in Anna dei miracoli che sembrava recitare solo per me. Avevo gli autografi di tutti. Come potevo non innamorarmi? Poi mia nonna affittò pure una parte della casa ai tecnici e il teatro venne a me. È stata comunque un’infanzia felice. Dopo, che altro potevo fare?».

 

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Non aveva un piano B?

«Nessuno. Mia madre, per me sì. Lei lavorava nella scuola e mi diceva sempre: fai domanda, fai domanda. Mai fatta».

 

E non ha mai temuto di non realizzare il piano A?

«Avevo fiducia. E mi è andata bene. Ho sempre lavorato, magari meno quando a televisioni e produttori è venuta la passione per le “bambole di ceramica”, ma non ho mai dato preoccupazioni ai fidanzati».

 

Temevano di doversela accollare?

«Figurarsi, ho sempre avuto un’attrazione per i disperati».

 

Da subito?

«Il mio fidanzato dei diciassette anni veniva da un quartiere molto popolare, Pallonetto di Santa Lucia. Stavo con lui quando arrivò Maradona a Napoli. Le domeniche erano bloccate: attesa della partita, partita, commenti del dopo partita. Quando si giocò ai mondiali Italia-Argentina, non avendo il biglietto l’abbiamo passata facendo per tutto il tempo il giro intorno allo stadio in motorino».

 

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Un’esagerazione?

«Da un lato. Dall’altro è stato il fondamento della voglia di riscatto della città. Al tempo c’erano i semafori spenti, il comune al dissesto, tutto era bloccato. Maradona indicò una possibilità per rialzarsi».

 

Napoli è terzo mondo o anche lei dissente dal giudizio di Le Figaro?

«Dissento, ha più energia artistica e culturale di Roma, per dire».

 

Ma ha bisogno di una guida, di un uomo speciale?

«Sì, dopo Maradona lo è stato, almeno all’inizio, Bassolino. È umano cercare chi ti dia una direzione».

 

Riecco Freud, la figura paterna mancante...

«Non so se siano padri, ma molti mi hanno aiutato a trovare il mio percorso. Dopo Antonio Capuano e prima di Paolo Sorrentino c’è stato e ancora c’è Toni Servillo. Mi ha diretto al debutto a teatro, era al mio fianco in questa prova al cinema».

 

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Come ci è arrivata, a fare la mamma del regista?

«Ci sono stati i provini: prima da sola, poi con lui presente. Mi ha detto che avrebbe deciso in una decina di giorni e ho risposto che intanto sarei andata al mare. Mi ha chiesto di non abbronzarmi. Poi hanno provato a invecchiarmi col trucco e mi hanno messo in testa quella che non vorrei diventasse una mia costante».

 

Quale?

«La cofana Anni Ottanta».

 

Avverta il mondo del cinema: con la cofana, mai più. 

«Con la cofana, mai più. Ma quando l’ho messa è come fossi entrata nel personaggio. Paolo mi ha guardato e ha detto: vuoi fare mia madre? E la responsabile del cast ha lanciato quell’urlo».

 

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Un ruolo difficile, specialmente davanti all’uomo che conosceva l’originale.

«C’erano molte cose da restituire: rendere perfetto l’amore imperfetto tra lei e il marito».

 

L’ha aiutata il carteggio dei suoi genitori?

«Di più mi è servito ancorarmi a Toni. Mi sono rifatta alla forza del legame che esiste tra noi, seppure di altra natura. Poi c’erano altri aspetti: il dolore che lei provava e la capacità di essere forte per superarlo».

 

Era una specie di secondo lavoro per le madri e le mogli del tempo. Una generazione dopo era già qualcosa che non appartiene più, da cui staccarsi. 

«Sì, infatti mi è venuto più facile il dolore della resistenza. Ci sono cose che non avrei tollerato: il tradimento per me spezza ogni possibilità di continuare».

 

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In una intervista, parlando di un ruolo precedente, quello della figlia di una vittima del terrorismo, lei ha distinto perdono e accettazione. È capace di uno dei due?

«Il perdono non lo concepisco. L’accettazione in alcuni casi sì. Non in questo. Lì sono diversa dalla madre del film».

 

Lei è madre di Luciano, che ha quattordici anni. Lo vedeva in Fabietto, l’alter ego di Sorrentino?

«Sì, spesso. Soprattutto nella scena in cui lo accarezzo mentre dorme. Abbiamo visto il film insieme, nella saletta di montaggio. Lui era molto emozionato. Dopo la scena più difficile, quella in cui ho una crisi di nervi per la sofferenza, lui mi ha detto: ho capito a che cosa pensavi recitando, pensavi a me».

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Era così?

«No. Anche se lui mi fa soffrire e un po’ ne gode. Ma in quella scena ho tirato fuori cose mie, solo mie. Tra me e lui ora va meglio, è più positivo, credo più orgoglioso di avere una mamma attrice. Prima non era così, ma l’ho sempre portato con me, su tutti i set».

 

Perché non provasse, come lei, seppur per motivi diversi, il trauma dell’abbandono?

«C’è una frase, nel film, sulla differenza tra “essere lasciati soli” e “essere abbandonati”, una di quelle che scrive Paolo e su cui il pubblico si fa domande. L’altra sera a Napoli ne discutevo con una professoressa, cercavamo il senso. Eravamo in taxi, l’autista si gira e fa: si può essere soli per scelta, l’abbandono si subisce. L’abbiamo presa per buona».

 

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Sempre insieme con suo figlio, è vero che fate scambio di case nel mondo?

«Sì, spesso. È una cosa molto bella, anche se è una di quelle che adesso sono diventate difficili. Lui era contrario all’inizio, non voleva lasciare Roma, lasciare un altro, sconosciuto, a giocare con la sua playstation. Poi ha cominciato a divertirsi, si è aperto, ha capito che bisogna dare meno peso alle cose e più alle esperienze. Scambiare casa è un viaggio nel viaggio. Siamo stati a Copenaghen, Londra, Parigi, Marsiglia, Chamonix. La gente si fida, lascia i gioielli nei cassetti, ti fa trovare i frigoriferi pieni. E tu ricambi. È educativo».

 

L’ultima domanda è la più importante: e le arance?

«Quelle con cui faccio la giocoliera nel film?»

 

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Quelle: era una cosa che sapeva fare e ha dato al personaggio?

«Magari. Era nel copione. Mi sono esercitata per un mese e mezzo, per ore al giorno. Temevo di emozionarmi e lasciarle cadere, soprattutto nel piano sequenza in cui il ragazzo cammina per la casa, apre la porta e mi trova a lanciare le arance in aria mentre piango di rabbia. Alla fine ci sono riuscita».

 

Lo fa ancora, ogni tanto, anche se non serve più per il film?

«Sì».

 

A che cosa serve?

«Ho capito perché lo faceva la mamma di Paolo. È un modo per non concentrarsi soltanto sul dolore, per tagliarlo a metà, occupando una parte del cervello. È una distrazione. Una piccola terapia. Può sempre servire».

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