milano al tempo del coronavirus

SAPESSI COME E’ STRANO TROVARSI IN UN DESERTO CHIAMATO MILANO - BOUTIQUE VUOTE, NIENTE MOVIDA. NELLA CITTA’ MESSA IN PAUSA DAL CORONAVIRUS TROVARE PARCHEGGIO È FACILE COME SE FOSSE AGOSTO, SUI TRAM C'È SOLO L'IMBARAZZO DELLA SCELTA PER SEDERSI - LO STRESS DEI FARMACISTI, IL TELELAVORO E LA RESISTENZA DEL BAR JAMAICA - SU WHATSAPP PROLIFERANO CHAT CARBONARE PER ORGANIZZARE “APE FAI-DA-TE” - VIDEO

Elisabetta Rosaspina per il “Corriere della Sera”

 

milano al tempo del coronavirus

Così insolitamente fragile e spaventata, senza più un' agenda fitta di impegni professionali e mondani da rispettare, senza affanno, senza traffico, senza rumore e senza code (supermercati e farmacie a parte), Milano è da ieri in modalità «pausa».

 

Brutto a dirsi, ma è perfino più bella nella sua versione rarefatta. Silenziosa, un po' attonita, amabile e quasi rassegnata.

 

Il primo lunedì dopo l' annuncio dell' apparizione del coronavirus è cominciato con la mancata riapertura dei negozi cinesi nella zona di via Paolo Sarpi. Non tanto per paura, quanto per solidarietà.

 

Una lunga fila di saracinesche abbassate è la risposta della Chinatown locale allo sgomento da contagio che si è impadronito della città. Qualche cartello sulle serrande fa riferimento alle «disposizioni delle autorità sanitarie», ma altri si limitano a comunicare le date di chiusura delle ferie impreviste: dal 24 febbraio al 1° marzo. Per cominciare.

 

milano al tempo del coronavirus

Ristoranti, parrucchieri, bar, manicure sempre aperti, domeniche comprese, si sono arresi all' infausto debutto dell' Anno del Virus: «È un' iniziativa nata in modo orizzontale, sulle chat, e c' è stato anche un invito dell' ambasciata cinese» ha spiegato all' Ansa Francesco Wu, referente per l' imprenditoria straniera in Confcommercio. Nessun ordine dall' alto: «L' autoquarantena di chi torna dalla Cina ha funzionato - osserva Wu -, non c' è nessun italo-cinese fra i contagiati. Quindi basta caccia all' untore».

 

Tenere aperto, comunque, sarebbe antieconomico.

Un' unica cliente ha rallegrato, per esempio, la giornata di un centro estetico cinese disponibile in zona Porta Venezia: «Se proprio devo andare in quarantena almeno avrò i piedi in ordine» stabilisce, pragmatica, all' uscita.

 

Ma, in generale, lo shopping può attendere. In via Montenapoleone e nelle altre vie del quadrilatero d' oro, le boutique sono vuote. Le commesse della Rinascente sorridono grate ai pochi visitatori che si aggirano tra i banchi dando un senso alla loro vana attesa di comitive di turisti.

milano al tempo del coronavirus

 

Anche spostarsi per Milano sui mezzi pubblici è diventato confortevole. In metropolitana, sugli autobus e i tram c' è soltanto l' imbarazzo della scelta per sedersi. I timori di un' indesiderata promiscuità hanno spinto molti impiegati a raggiungere gli uffici in auto. Inoltre diverse aziende hanno optato per il telelavoro e le riunioni in streaming.

 

Quindi anche trovare parcheggio è diventato facile quasi come in agosto.

 

All' altro estremo della quotidianità ai tempi della perfida simil-influenza c' è lo stress dei farmacisti: «La gente sembra impazzita - constata una dottoressa Elena Colombo in zona San Siro -. Ieri ho "bruciato" 600 mascherine, reperite per fortuna, e disinfettanti in meno di una giornata. Ma che fine hanno fatto? Dovrebbe esserci tutta la città in maschera, per strada, invece...».

 

Invece no. Se non erano destinate al mercato nero, le tanto ricercate mascherine sono rimaste in tasca o in borsa. Per le vie del centro sono una minoranza i passanti che le sfoggiano. Spesso stranieri.

 

milano al tempo del coronavirus

La maggioranza difende l' orgoglio della normalità. Messo a dura prova, però, all' ora della spesa. Nel segreto del monitor gli ordini di generi alimentari e per l' igiene sono quintuplicati, informa Sami Kahale, direttore generale di Esselunga. I rifornimenti sono arrivati, ma non tengono il ritmo dell' incetta: «Non ci sono carenze di prodotti nei nostri magazzini e non prevediamo di averne. Desideriamo pertanto rassicurare i nostri clienti sulla continuità del servizio e di conseguenza invitiamo ad acquistare quantitativi solo per le normali esigenze di consumo» raccomanda (a vuoto) il manager.

 

Con tante provviste accantonate in casa i milanesi disertano caffè, ristoranti e - segno inequivocabile della gravità del momento - addirittura le imprescindibili «apericene». Nonostante i 19 gradi regalati da questo mite inverno, i tavolini all' aperto delle vie di Brera sono desolatamente liberi.

 

Allo storico bar Jamaica sono quasi 110 anni di onorato servizio a ribollire contro «l' isteria collettiva», e lo sdegno è condensato nel cartello appeso dietro al banco del bar: «Non abbiamo chiuso neanche sotto i bombardamenti». Figurarsi se ci riuscirà un pestilenziale mostriciattolo.

milano al tempo del coronavirus

 

La quaresima anticipata di Milano prosegue, tra cinema, teatri, night e musei sbarrati.

Anche la Biblioteca Sormani si è arresa, ma purtroppo non risulta che le librerie siano state prese d' assalto da torme di lettori angosciati.

 

2 - MILANO SPETTRALE REAGISCE COL TELELAVORO

Da “la Stampa”

 

C'è stato come uno scatto, una consapevolezza nuova. Finora, per Milano l' epidemia era una notizia, certo preoccupante ma lontana, da qualche parte nelle lande desolate al di là di Lodi, posti dove Internet va lento e il cellulare non prende bene. E se qualcuno perdeva davvero la testa, concesso e non dato di averla, svuotando i supermercati come se iniziasse la guerra, beh, era folklore.

 

Da ieri, il coronavirus è diventata l' edizione 2.0 della peste di Manzoni, speriamo magari meno tragica. E Milano ci è dentro fino al collo. Mai vista così poca gente in metro e sui mezzi, per cominciare.

 

milano al tempo del coronavirus

«Roba da Ferragosto, ma lì almeno ci sono i turisti», commentava una sciura sulla linea rossa all' altezza di San Babila. Poco affollata piazza Duomo, desertificato perfino il Quadrilatero. In Montenapo commessi mesti guardavano fuori dai negozi vuoti i marciapiedi semivuoti: svaniti i russi, evaporati gli arabi, scomparsi i cinesi. Business as usual? Macché. Impossibilitata «a lavurà» come al solito, la città si svuota. Raccomandazioni di lavorare da casa, non farsi vedere in ufficio, limitare le riunioni, fare videoconferenze anche fra un piano e l' altro.

 

Nella Torre Unicredit di piazza Gae Aulenti, quanto più simile a Manhattan ci sia in Italia, su 16 mila lavoratori ce n' erano 4 mila, gli altri tutti a smanettare sui computer da casa. Con i pargoli alla magione causa chiusura delle scuole, non è facile. I nonni sono tutti mobilitati, chi ha la seconda casa organizza in fretta settimane bianche o al mare fuori programma.

 

È tutta una litania di appuntamenti mancati, incontri saltati, riunioni già indispensabili rinviate a date da destinarsi.

 

coppia con mascherina in metro a milano

Destino, appunto. Beffardissimo quello di Roberto Andò, il regista del «Manoscritto del Principe». Debuttava alla Scala dirigendo «Il turco in Italia» di Rossini e contemporaneamente la Cineteca gli dedicava una retrospettiva. Bene: Rossini è andato in scena con successo sabato, ma per ora non avrà repliche; la retrospettiva, chissà. I teatri, i cinema, i musei, le palestre, le discoteche sono tutti chiusi. Forse non moriremo di virus, ma di noia certamente sì. «Certo, è molto frustrante», commenta Andò vincendo l' Oscar dell' eufemismo.

 

E poi spiega: «Si è tutto accelerato di colpo. Come entrare in un film distopico, oppure in "Cecità" di Saramago: improvvisamente, ti trovi dentro un mondo diverso».

Proprio così. Più che di angoscia, la sensazione è di irrealtà. La gente gira con le mascherine, almeno chi le ha perché nelle farmacie sono esaurite da un pezzo (però ieri fuori dalla Centrale c' era il solito furbetto che le vendeva a 10 euro al pezzo). Gli altri rimediano coprendosi bocca e naso con la sciarpa, sembra la «metropolitana dei Tuareg».

 

Idem l' Amuchina, ormai introvabile: in attesa di rifare le scorte, i farmacisti propongono succedanei, e c' è chi ha iniziato a produrre artigianalmente gel disinfettanti.

 

donne con la mascherina alla fermata porta venezia della metro di milano

I tiggì insistono sulla chiusura dei luoghi iconici. Ma in Duomo, serrato a tutt' oggi, ci vanno i turisti e alla Scala gli «happy few», l' élite. Con i bar obbligati a chiudere alle 18, la vera tragedia, forse quella che colpisce di più la pubblica opinione, è la rinuncia alla più milanese delle istituzioni: l' aperitivo (che per inciso, stima la Confcommercio, vale il 15% del fatturato degli esercenti, mica - appunto - noccioline). Rivolta al mitico «Jamaica» di Brera. La titolare Carlina Cretelli lancia proclami su Facebook: «Non ci avranno mai!!! "Giam" non ha chiuso sotto i bombardamenti, deve farlo per l' isteria collettiva?».

 

Ma già si prepara la resistenza e su WhatsApp proliferano chat carbonare per organizzare «ape fai-da-te» a casa di questo o quello, allora chi porta il gin e chi ha lo shaker?

 

Perché la città, che poi alla fin fine rimane asburgica nell' anima, dunque disciplinata, si organizza e si adegua alle indicazioni delle autorità.

 

un uomo con la mascherina in mezzo ai piccioni a milano

«Non sarà come la peste di Atene nella quale morì Pericle, o almeno speriamo», sorride l' illustre Eva Cantarella, grecista ottima massima. «La buona notizia è che sta venendo fuori il vecchio senso civico dei milanesi. Il mio barista me l' ha detto: chiudere alle sei per noi è un disastro e magari l' ordinanza è un' esagerazione, ma il rischio c' è e bisogna obbedire».

 

Passerà anche questa. Anche chi di solito parla più inglese che italiano rispolvera il dialetto. Sentimento dominante: «Tiremm innanz».

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