bossi e giorgetti

CARROCCIO A PEZZI! SALVINI DICE CHE NELLA LEGA È TUTTO OK MA GIORGETTI HA MOLLATO IL CONSIGLIO SENZA PARLARE (E OGGI NON SARÀ A MILANO). IL MINISTRO METTE IN PRATICA I CONSIGLI ANTICRISI DI BOSSI CHE SUGGERIVA DURANTE LE LITI CON GLI ALLEATI DI… - QUANDO IL "DELFINO" SI RIVOLTA - DA D'ALEMA-OCCHETTO A FINI-BERLUSCONI (“CHE FAI MI CACCI?) FINO A CAPEZZONE CHE PANNELLA RIMISE AL SUO POSTO: “MA TI CREDI DI ESSERE UN GRANDE STRATEGA MENTRE GLI ALTRI SONO DEGLI STRONZI?”

Tommaso Labate per corriere.it

 

giorgetti bossi

Nei giorni di bufera, raccontava anni fa agli amici Giancarlo Giorgetti, «metto in pratica uno dei tanti insegnamenti che mi ha dato Umberto Bossi». Succedeva durante le crisi di governo, le liti con gli alleati, i tormenti interni alla Lega, «io dicevo “Umberto, hai letto che cos’ha detto Tizio?” e lui mi rispondeva “ecco, Giancarlo, in questi momenti tu non devi leggere niente, neanche i giornali, perché così eviti di farti influenzare da quello che dicono gli altri e ragioni con la tua testa”».

 

E ora che tutti questi elementi tornano prepotentemente in cima ai titoli del suo dualismo con Matteo Salvini — la bufera, le liti interne, i tormenti, i giornali, i giornalisti e persino il ragionare con la propria testa — chissà se il ministro dello Sviluppo economico avrà ripensato agli anni del Senatur, quando si era guadagnato la fama dell’essere praticamente l’unico «delfino» sulla scena politica italiana ad avere una lealtà che lo posizionava al di sopra di ogni sospetto, graniticamente fedele alla linea, totalmente ortodosso, privo di eccentricità degne di nota che non fossero l’essere tifoso di una squadra di calcio inglese (il Southampton) e al servizio di un leader soprattutto quando era sul punto di morire, come capitò al Senatur nel 2004.

giancarlo giorgetti e matteo salvini 2

 

Altro che rivoltarsi, in quell’occasione — sempre dai racconti privati che Giorgetti ha riservato agli amici negli ultimi anni — «ero l’unico insieme alla moglie, ai figli e alla scorta che sapeva dove si trovasse la clinica in cui Umberto stava facendo la riabilitazione, nel Canton Ticino. Per mantenere il segreto, quando andavo da lui lasciavo il cellulare spento in un autogrill prima di superare il confine e lo riprendevo una volta tornato sul suolo italiano, per evitare che da spento suonasse con la segreteria telefonica svizzera».

 

Il tema della rivolta dei delfini si è spesso intrecciato con lo stato di salute o con la morte del leader, a volte — non sempre — a prescindere dalle reali intenzioni dei protagonisti. Achille Occhetto e Massimo D’Alema che siglano un patto di non belligeranza nel garage di Botteghe Oscure nel giorno dei funerali di Enrico Berlinguer, per esempio; e, sempre dalla storia del Partito comunista italiano, nel 1988, le dimissioni del segretario Alessandro Natta, formalizzate dal letto in cui era stato costretto da un infarto a Gubbio, segnate dal sobrio burocratese di partito nella lettera pubblica («Le recenti vicende politiche, con il preoccupante risultato delle elezioni amministrative, rendono urgente un mutamento delle responsabilità di direzione») e dal risentimento verso i delfini in una lettera privata resa nota anni dopo («Compagni, non vi siete comportati lealmente. C’è stato un tramestio, davanti alla mia stanza d’ospedale. Quello che avete fatto per me è stato offensivo»).

 

giancarlo giorgetti e matteo salvini 1

Perché la storia delle rivolte dei delfini nei confronti del leader può seguire la traiettoria che viaggia da «farsa» in «tragedia» ma anche il suo percorso marxiano, inverso, da «tragedia» a «farsa». Il pathos via via discendente che ha ammantato il dossier tutte le volte che il delfino era quello indicato da Silvio Berlusconi, e il leader Berlusconi stesso, ne è una prova.

 

«Siamo alle comiche finali», mandò a dire Gianfranco Fini al Cavaliere prima delle elezioni del 2008; poi ricucirono e ruppero definitivamente, con quel «che fai, mi cacci?» che scandì nel 2010 tempi e ritmi del divorzio di una coppia politica che diciassette anni prima, all’inaugurazione di un centro commerciale di Casalecchio di Reno («Se fossi a Roma, voterei per Fini sindaco», Berlusconi dixit), aveva messo la prima pietra sulla Seconda Repubblica.

 

 

matteo salvini e giancarlo giorgetti 8

Negli anni a venire, il numero uno di Forza Italia avrebbe indicato la successione di Angelino Alfano, che poi avrebbe fondato un partito tutto suo per non uscire dalla maggioranza che sosteneva il governo di Enrico Letta; e poi l’incoronazione soft di Giovanni Toti, nominato «consigliere politico» nella sacralità del balcone di un centro benessere di Gardone Riviera nel 2014, che sei anni e mille peripezie dopo sarebbe diventato nel gergo di Arcore l’incrocio tra un traditore e un ingrato, «gli ho telefonato e gli ho lasciato più volte messaggi ma non mi risponde più», confessò una volta Berlusconi.

BERLUSCONI E FINI

 

 

Il leader sopravvissuto a più delfini, accompagnato dall’etichetta di essere un «Crono che divorava i suoi figli», è stato Marco Pannella. «Domenica alla radio hai fatto un’ora di trasmissione per farmi un culo così!», sbottò una volta Daniele Capezzone. «Ma aoooh? Ti credi davvero di essere un grande stratega mentre gli altri sono degli str..zi?», rispose il Capo. E visto che era tutto in diretta su Radio Radicale, da quel giorno del 2006 il giovane segretario radicale non era più il delfino. Pannella, invece, sarebbe rimasto Pannella. Fino alla fine.

DANIELE CAPEZZONE MARCO PANNELLA MARCO CAPPATOmatteo salvini e giancarlo giorgetti 6matteo salvini e giancarlo giorgetti 5matteo salvini e giancarlo giorgetti 4matteo salvini e giancarlo giorgetti 3matteo salvini e giancarlo giorgetti 1matteo salvini e giancarlo giorgetti 2matteo salvini e giancarlo giorgetti 7

Ultimi Dagoreport

giorgia meloni regionali de luca zaia salvini conte stefani decaro fico

DAGOREPORT: COME SI CAMBIA IN 5 ANNI - PER CAPIRE COME SIA ANDATA DAVVERO, OCCORRE ANALIZZARE I VOTI ASSOLUTI RIMEDIATI DAI PRINCIPALI PARTITI, RISPETTO ALLE REGIONALI DEL 2022 - LA LEGA HA BRUCIATO IL 52% DEI VOTI IN VENETO. NEL 2020 LISTA ZAIA E CARROCCIO AVEVANO OTTENUTO 1,2 MILIONI DI PREFERENZE, QUESTA VOLTA SOLO 607MILA. CONSIDERANDO LE TRE LE REGIONI AL VOTO, SALVINI HA PERSO 732MILA VOTI, IL 47% - TONFO ANCHE PER I 5STELLE: NEL TOTALE DELLE TRE REGIONI HANNO VISTO SFUMARE IL 34% DELLE PREFERENZE OTTENUTE 5 ANNI FA – IL PD TIENE (+8%), FORZA ITALIA IN FORTE CRESCITA (+28,3%), FDI FA BOOM (MA LA TENDENZA IN ASCESA SI È STOPPATA) – I DATI PUBBLICATI DA LUIGI MARATTIN....

luca zaia matteo salvini alberto stefani

DAGOREPORT – DOPO LA VITTORIA DEL CENTRODESTRA IN VENETO, SALVINI NON CITA QUASI MAI LUCA ZAIA NEL SUO DISCORSO - IL “DOGE” SFERZA VANNACCI (“IL GENERALE? IO HO FATTO L'OBIETTORE DI COSCIENZA”) E PROMETTE VENDETTA: “DA OGGI SONO RICANDIDABILE” – I RAS LEGHISTI IN LOMBARDIA S’AGITANO PER L’ACCORDO CON FRATELLI D’ITALIA PER CANDIDARE UN MELONIANO AL PIRELLONE NEL 2028 - RICICCIA CON PREPOTENZA LA “SCISSIONE” SUL MODELLO TEDESCO CDU-CSU: UN PARTITO “DEL TERRITORIO”, PRAGMATICO E MODERATO, E UNO NAZIONALE, ESTREMISTA E VANNACCIZZATO…

luca zaia roberto vannacci matteo salvini

NON HA VINTO SALVINI, HA STRAVINTO ZAIA – IL 36,38% DELLA LEGA IN VENETO È STATO TRAINATO DA OLTRE 200 MILA PREFERENZE PER IL “DOGE”. MA IL CARROCCIO DA SOLO NON AVREBBE COMUNQUE VINTO, COME INVECE CINQUE ANNI FA: ALLE PRECEDENTI REGIONALI LA LISTA ZAIA PRESE DA SOLA IL 44,57% E IL CARROCCIO IL 16,9% - SE SALVINI PIANGE, MELONI NON RIDE: NON È RIUSCITA A PRENDERE PIÙ VOTI DELLA LEGA IN VENETO E IN CAMPANIA È TALLONATA DA FORZA ITALIA (11,93-10,72%). PER SALVINI E TAJANI SARÀ DIFFICILE CONTRASTARE LA RIFORMA ELETTORALE - PER I RIFORMISTI DEL PD SARÀ DURA DARE UN CALCIO A ELLY SCHLEIN, AZZERATE LE AMBIZIONI DI GIUSEPPE CONTE COME CANDIDATO PREMIER - "LA STAMPA": "IL VOTO È LA RIVINCITA DELLA ‘LEGA NORD’ SU QUELLA SOVRANISTA E VANNACCIANA: LA SFIDA IDEOLOGICA DA DESTRA A MELONI NON FUNZIONA. IL PARTITO DEL NORD COSTRINGERÀ SALVINI AD ESSERE MENO ARRENDEVOLE SUI TAVOLI DELLE CANDIDATURE. SUL RESTO È LECITO AVERE DUBBI…”

xi jinping vladimir putin donald trump

DAGOREPORT – L'INSOSTENIBILE PIANO DI PACE DI TRUMP, CHE EQUIVALE A UNA UMILIANTE RESA DELL'UCRAINA, HA L'OBIETTIVO DI  STRAPPARE LA RUSSIA DALL’ABBRACCIO ALLA CINA, NEMICO NUMERO UNO DEGLI USA - CIÒ CHE IL TYCOON NON RIESCE A CAPIRE È CHE PUTIN LO STA PRENDENDO PER IL CULO: "MAD VLAD" NON PUÒ NÉ VUOLE SFANCULARE XI JINPING - L’ALLEANZA MOSCA-PECHINO, INSIEME AI PAESI DEL BRICS E ALL'IRAN, È ANCHE “IDEOLOGICA”: COSTRUIRE UN NUOVO ORDINE MONDIALE ANTI-OCCIDENTE – IL CAMALEONTISMO MELONI SI INCRINA OGNI GIORNO DI PIÙ: MENTRE IL VICE-PREMIER SALVINI ACCUSA GLI UCRAINI DI ANDARE “A MIGNOTTE” COI NOSTRI SOLDI, LA MELONI, DAL PIENO SOSTEGNO A KIEV, ORA NEGA CHE IL PIANO DI TRUMP ACCOLGA PRATICAMENTE SOLO LE RICHIESTE RUSSE ("IL TEMA NON È LAVORARE SULLA CONTROPROPOSTA EUROPEA, HA SENSO LAVORARE SU QUELLA AMERICANA: CI SONO MOLTI PUNTI CHE RITENGO CONDIVISIBILI...")

donald trump volodymyr zelensky vladimir putin servizi segreti gru fsb cia

DAGOREPORT - L’OSCENO PIANO DI PACE SCODELLATO DA TRUMP, CHE EQUIVALE A UNA CAPITOLAZIONE DELL’UCRAINA, ANDAVA CUCINATO BENE PER FARLO INGOIARE A ZELENSKY - E, GUARDA LA COINCIDENZA!, ALLA VIGILIA DELL’ANNUNCIO DEL PIANO TRUMPIANO SONO ESPLOSI GLI SCANDALI DI CORRUZIONE A KIEV, CHE VEDONO SEDUTO SU UN CESSO D’ORO TIMUR MINDICH, L’EX SOCIO DI ZELENSKY CHE LO LANCIÒ COME COMICO - PER OTTENERE ZELENSKY DIMEZZATO BASTAVA POCO: È STATO SUFFICIENTE APRIRE UN CASSETTO E DARE ALLA STAMPA IL GRAN LAVORIO DEI SERVIZI SEGRETI CHE “ATTENZIONANO” LE TRANSIZIONI DI DENARO CHE DA USA E EUROPA VENGONO DEPOSITATI AL GOVERNO DI KIEV PER FRONTEGGIARE LA GUERRA IN CORSO…