PER DIGERIRE I “CORVI”, A BERGOGLIO NON BASTERÀ LA TENEREZZA

1 - "LA TENEREZZA È DEI FORTI" E IL PAPA ESALTA GIUSEPPE
Andrea Tornielli per "la Stampa"

Chi si aspettava una grande omelia programmatica del pontificato sarà rimasto sorpreso. Papa Francesco ha parlato della fede, della forza e della tenerezza di un santo a cui è devotissimo e che la Chiesa ieri ha festeggiato: Giuseppe. È lui il modello al quale il nuovo vescovo di Roma vuole ispirarsi.

«Non dimentichiamo mai che il vero potere è il servizio e che anche il Papa per esercitare il potere deve entrare sempre più in quel servizio che ha il suo vertice luminoso sulla Croce; deve guardare al servizio umile, concreto, ricco di fede, di san Giuseppe e come lui aprire le braccia per custodire tutto il popolo di Dio e accogliere con affetto e tenerezza l'intera umanità, specie i più poveri, i più deboli, i più piccoli... Solo chi serve con amore sa custodire!».

Ecco il programma del pontificato: «servire» umilmente, tornando all'essenziale, per comunicare il messaggio della misericordia di un Dio che si è sacrificato sulla croce. Servire concretamente. E poi «custodire» aprendo le braccia, accogliendo con tenerezza tutta l'umanità, in particolare i poveri, i piccoli, i deboli.

Dopo aver rivolto un pensiero al predecessore Joseph Ratzinger, che festeggiava l'onomastico, e dopo aver salutato le delegazioni presenti citando esplicitamente i rappresentanti della comunità ebraica, il nuovo Papa nell'omelia ha tratteggiato la figura di san Giuseppe. Predicando in piedi, senza la mitria sul capo, ha sottolineato che la missione affidata da Dio al carpentiere di Nazaret è quella di essere «custode».

Giuseppe, ha vissuto la sua vocazione di custode «nella costante attenzione a Dio, aperto ai suoi segni, disponibile al suo progetto, non tanto al proprio». Si è lasciato guidare «dalla volontà di Dio, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge».

I cristiani, come Giuseppe, custodiscono Cristo nella loro vita «per custodire gli altri, per custodire il creato». Ma Francesco ha ricordato che la «vocazione del custodire» riguarda tutti, non solo i cristiani. «È il custodire l'intero creato, la bellezza del creato... è l'avere rispetto per ogni creatura di Dio e per l'ambiente in cui viviamo. È il custodire la gente, l'aver cura di tutti, di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore».

È anche, ha continuato il Papa, «l'aver cura l'uno dell'altro nella famiglia: i coniugi si custodiscono reciprocamente, poi come genitori si prendono cura dei figli, e col tempo anche i figli diventano custodi dei genitori. È il vivere con sincerità le amicizie, che sono un reciproco custodirsi nella confidenza, nel rispetto e nel bene. In fondo, tutto è affidato alla custodia dell'uomo, ed è una responsabilità che ci riguarda tutti».

Quando «l'uomo viene meno a questa responsabilità di custodire», allora «trova spazio la distruzione e il cuore inaridisce». In ogni epoca della storia, ha detto il Papa «ci sono degli "Erode" che tramano disegni di morte, distruggono e deturpano il volto dell'uomo e della donna».

Francesco ha quindi chiesto «a tutti coloro che occupano ruoli di responsabilità in ambito economico, politico o sociale» come pure a tutti gli uomini di essere «custodi» della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, custodi dell'altro, dell'ambiente; «non lasciamo che segni di distruzione e di morte accompagnino il cammino di questo nostro mondo!».

Ma per essere capaci di custodire, ha spiegato Francesco, bisogna evitare «che l'odio, l'invidia, la superbia» sporchino la vita. Il Papa ha citato per sei volte la parola tenerezza. Custodire e prendersi cura «chiede bontà, chiede di essere vissuto con tenerezza».

E la tenerezza, ha concluso, «non è la virtù del debole, anzi, al contrario, denota fortezza d'animo e capacità di attenzione, di compassione, di vera apertura all'altro». Per questo «non dobbiamo avere timore» della bontà e della tenerezza. «Custodire il creato, ogni uomo ed ogni donna, con uno sguardo di tenerezza e amore, è aprire l'orizzonte della speranza, è aprire uno squarcio di luce in mezzo a tante nubi».

2 - IL SENTIMENTO CHE CI FA RITORNARE PICCOLI
Marco Belpoliti per "la Stampa"

La madre si china sul proprio bambino e lo stringe a sé. Questa è l'immagine primigenia della tenerezza, cui oggi Papa Francesco ci richiama, come a una vocazione primigenia degli esseri umani. In effetti, si tratta di un sentimento che secondo Freud sarebbe più antico della stessa sensualità, e che si genera nei primissimi anni dell'infanzia. La fonte è il contatto gratificante con la madre durante l'allattamento.

Nell'ora del pasto, ha scritto lo zoologo Desmond Morris, la madre «si trasforma in una forma calda spinta nella bocca del neonato e in un sapore dolce». Il capezzolo, oppure il seno, insieme al latte, diventa il segnale fondamentale dell'amore materno verso il bambino, radice prima di ogni successiva tenerezza. La Chiesa cattolica, con il suo culto mariano, non si è mai dimenticato di questo elemento di dolcezza, fonte di affetto, amore, commozione e anche compassione.

Quante Madonne che allattano ci sono nelle pittura dal Medioevo in poi? Molte. Prima che la Controriforma, con i suoi rigori, espellesse dalla iconografia consueta l'immagine di Maria che allatta Gesù Bambino, spesso nudo, con i suoi piccoli genitali in mostra, l'idea di adorare la Madre di Cristo in atto tenero era un elemento consueto nella vita quotidiana dei fedeli.

Dopo tanti anni di oblio, a sorpresa, Papa Luciani proclamò, dall'alto del suo magistero, che Dio non era solo Padre, ma anche Madre, proprio per esprimere quella tenerezza che precede ogni sessualizzazione della sfera umana. Un motto in anticipo rispetto all'esortazione del nuovo papa.

Morris, che ha studiato i gesti degli uomini e delle donne, per trovare darwinianamente la loro origine nell'infanzia della specie, sostiene che le madri oltre a cullare i neonati, a nutrirli, a stringerli a sé - gesto fondamentale della tenerezza è abbracciare -, colma la prima età dei bebè di affettuosità «famigliari»: vezzeggiare, accarezzare, lavare, pulire, e soprattutto sorridere. Proprio questo gesto del sorriso è quello che instaura nel futuro di ogni essere umano la relazione dell'affetto, che poi si rafforzerà in ogni gesto d'amore seguente, a partire dal bacio.

Se si pensa alla tenerezza, non può non venire in mente il sorriso. Lo zoologo inglese sostiene che il sorriso è un fenomeno unico. Le scimmie non sorridono, perché sono in grado di reggersi da sole alla madre, di aggrapparsi alla sua pelliccia. Il sorriso sarebbe la risposta che la specie umana ha elaborato nel corso della sua evoluzione per rispondere alla madre, per mantenere con lei - dispensatrice di tenerezza e di cibo - il contatto fondamentale.

Non a caso gli etologi considerano il sorriso l'atto umano più importante nel repertorio di tutti i gesti. Come sostiene un detto popolare, il bambino che riconosce il proprio padre è saggio, ma quello che riconosce la madre è ridente. Papa Bergoglio, inoltre, bacia con più facilità chi incontra rispetto ai papi precedenti, e anche questo rimanda alla sfera della relazione materna.

Se Freud ha potuto dire che la tenerezza, atteggiamento affettuoso e delicato, fondamentale nella costruzione della personalità, nasce dal soddisfacimento delle pulsioni di autoconservazione, nel bacio emerge invece il carattere erotico della stessa relazione della madre verso il bambino e del bambino verso la madre, fondamentale per lo sviluppo delle «pulsioni dell'Io» di quest'ultimo.

Secondo Darwin il riso deriverebbe dal pianto, di cui conserva la tensione e drammaticità implicita; ridere significa dire: quello che ho percepito come pericolo non è reale. Morris lo sintetizza nella formula: «Il ridere è una forma secondaria di pianto, così come il sorriso è una forma secondaria di risata». Il sorriso reciproco è una necessità, un bisogno che scaturisce dalla comunicazione tra simili.

La tenerezza nasce dunque in una sfera che si è selezionata nel corso di milioni di anni e riguarda la sfera pre-verbale, quando si è ancora «senza parole» - significato originario della parola «infante» -, alle soglie della comunicazione simbolica creata dalle diverse civiltà.

È allora che ci si fonda sui piccoli movimenti, sulle posture minime, sul tono della voce, molto più di quando si entrerà nel linguaggio e nelle regole della comunicazione sociale. La tenerezza dunque ci fa tornare piccoli nel momento in cui la elargiamo a qualcuno che ci piace, che ci attrae, che amiamo, o, al contrario, diventiamo a nostra volta piccini quando la riceviamo da qualcuno che prova verso di noi il medesimo sentimento. Il pianto è spento dalla tenerezza, tanto quanto il riso è stimolato dalla medesima tenerezza. Siamo umani per questo.

 

 

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