LIBIA FAI-DA-TE - COME SARÀ IL DOPO-GHEDDAFI? - MENTRE OBAMA E L’EUROPA ANNUNCIANO CHE NON MANDERANNO TRUPPE DI PACE A SEGUIRE LA TRANSIZIONE (COSTOSO E RISCHIOSO), NELLA NATO CRESCONO I TIMORI PER UNA FASE CHE POTREBBE RIVELARSI MENO FACILE DI QUANTO SBANDIERATO FINORA - IL RISCHIO REALE È QUELLO DI UNA “DISASTROSA VITTORIA”, SE LA CADUTA DEL RAÌS FINIRÀ PER INNESCARE UNA “RESA DEI CONTI TRA LE FAZIONI DEI RIBELLI, A COMINCIARE DA BERBERI E CIRENAICI”….

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Maurizio Molinari per "La Stampa"

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Nessun invio di truppe di pace internazionali, mantenimento della sicurezza affidato alle forze ribelli e risoluzione dell'Onu sulla ricostruzione civile, che vedrà gli europei assumersi le maggiori responsabilità: è questa la «road map» per il dopo-Gheddafi in Libia come si delinea dai contatti in corso fra le capitali della Nato e nei briefing del presidente americano Barack Obama in vacanza a Martha's Vineyard.

L'accelerazione dell'offensiva dei ribelli contro Tripoli ha stravolto le brevi vacanze di Obama nell'enclave dei vip, obbligandolo a separarsi a più riprese da moglie e figlie per esaminare, con il consigliere sui temi della sicurezza John Brennan, lo scenario che sta maturando.

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Se le preoccupazioni immediate riguardano il rischio di una carneficina a Tripoli, con i persistenti tentativi americani di indurre Gheddafi a lasciare volontariamente il potere, nei contatti con gli alleati la Casa Bianca è impegnata a concordare lo scenario del «dopo».

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La convergenza che trapela, da fonti americane ed europee, è sulla scelta di non inviare una missione di peacekeeping internazionale, affidando al Consiglio di transizione nazionale libico (Cnt) il mantenimento della sicurezza. «Obama resta fedele alla scelta di non mandare soldati in Libia e gli europei non hanno voglia di farlo per evitarne i costi economici» spiega Daniel Serwer, ex diplomatico americano a Roma nonché autore del recente studio «L'instabilità nella Libia del dopo-Gheddafi» del «Council on Foreign Relations».

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D'altra parte il leader della coalizione dei ribelli, Mahmoud Jibril, negli incontri avuti in più capitali Nato si è vantato di «guidare una rivoluzione» che «sarà in grado di assumere la guida del Paese», portando come prova la «stabilità delle aree finora liberate». Il primo ministro ad interim, Mahmud El-Warfally, durante una tappa a Washington ha illustrato un «piano di transizione» che prevede la formazione di un governo transitorio «con la presenza di tutte le componenti dell'opposizione» per preparare le elezioni al Parlamento, affiancato da «tre commissioni su ricostruzione, riconciliazione e istituzioni».

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Quella sulla «riconciliazione» si ispira al precedente sudafricano nel dopo-apartheid per «evitare vendette», ma nella Nato serpeggiano timori in proposito, come osserva il ministro degli Esteri canadese John Baird, mettendo le mani avanti: «La transizione non sarà perfetta». Al fine di aiutare i ribelli, la «road map» prevede l'invio a Tripoli subito dopo la caduta di Gheddafi di una «missione di monitoraggio» composta da Paesi arabi - e forse guidata dagli Emirati - destinata a testimoniare il sostegno della comunità internazionale al governo ad interim. Questo dovrebbe poi essere sancito da una risoluzione Onu sulla ricostruzione, che aprirà la strada ai contributi dei singoli Paesi.

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A conferma di quanto tale scenario sia avanzato c'è il fatto che l'Italia ha già iniziato a operare per riattivare i settori destinati a essere di sua competenza: sicurezza dei porti, dogane, sanità e indipendenza dei media. La principale preoccupazione resta tuttavia la sicurezza. Il generale canadese Vance ammonisce a «non accelerare il ritiro della Nato in assenza di una chiara composizione politica», mentre fonti militari britanniche temono di «andare incontro a una disastrosa vittoria», se la caduta di Gheddafi finirà per innescare una «resa dei conti tra le fazioni dei ribelli, a cominciare da berberi e cirenaici».

 

 

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