OBTORTO COLLE - CHI HA INTENZIONE DI INDEBOLIRE L'ITALIA, POTREBBE AVERE INTERESSE A INDEBOLIRE L'INVENTORE DEL GOVERNO MONTI, IL REGISTA DELLA TRANSIZIONE - “DA OBAMA ALLA MERKEL SI GUARDA A LUI COME IL GARANTE DELLA TENUTA DELL'ITALIA, INSIEME AL PREMIER MONTI” - NAPOLITANO SI SENTE TRADITO DAL PD E SOPRATTUTTO DA BERSANI - GRANDE DALEMIX! OGNI SETTE ANNI SOGNA IL QUIRINALE E OGNI SETTE ANNI RESTA A BAFFO ASCIUTTO…

Marco Damilano per "l'Espresso"

"Una campagna costruita sul nulla», l'aveva definita solo tre settimane fa in visita a L'Aquila, pensando di aver chiuso la questione. Ma ora è quel nulla che fa tremare le istituzioni, accende un conflitto senza precedenti tra la più alta magistratura dello Stato e la procura più impegnata nella battaglia contro la mafia, nella settimana in cui si ricorda la memoria di Paolo Borsellino e della sua scorta.

È quel nulla che spinge Giorgio Napolitano a esporsi in prima persona, mentre alla scadenza del settennato mancano ormai soltanto dieci mesi. Perché quel nulla, nel corso delle settimane, è aumentato di peso, fino ad assomigliare a un attacco al vertice della Repubblica, ragionano al Quirinale, «in una situazione di crisi in cui almeno il pilastro del sistema deve essere preservato».

La decisione di sollevare il conflitto di attribuzione presso la Corte costituzionale contro la procura di Palermo che ha intercettato indirettamente il capo dello Stato a colloquio con l'ex ministro Nicola Mancino (indagato per falsa testimonianza), intercettazioni che Napolitano giudica «assolutamente vietate» nel rispetto della Costituzione, benché non esista legge in materia, è stata presa alla fine della scorsa settimana.

Ma è diventata operativa soltanto dopo la lettura dell'ultimo articolo del pm palermitano Antonio Ingroia che replicava ai critici dell'operato suo e dei colleghi magistrati attaccando «gli abusi di potere, chi agita fantasmi su presunte violazioni di legge» senza conoscere i dettagli. Per esempio, «le esatte notizie sul numero» delle telefonate registrate. Quante sono? Al Colle non lo sanno.

E l'affermazione di Ingroia, unita a quelle del procuratore capo Francesco Messineo, ha dato la certezza che fosse necessario intervenire subito. Anche perché le parole del pm venivano pubblicate su "L'Unità", il quotidiano del Pd, il partito più vicino al presidente, non solo per l'antica militanza. Troppo per non reagire.

Irritazione. Amarezza. Preoccupazione. In un'estate già ad altissimo rischio, con Moody's che declassa l'Italia e lo spread che sfiora quota 500, l'Italia non può permettersi che finisca sotto tiro l'unica istituzione che regge nella crisi. Nella storia repubblicana, infatti, si è già assistito ad altre estati roventi intorno al Quirinale: il luglio 1960 del governo Tambroni, fortemente voluto dal presidente Giovanni Gronchi; l'agosto 1964 del «tintinnar di sciabole»; le dimissioni di Giovanni Leone; le picconate di Francesco Cossiga; il «non ci sto» di Oscar Luigi Scalfaro...

«Ma mai il Quirinale ha assunto il ruolo che gli ha saputo disegnare Napolitano, agli occhi della comunità internazionale», osserva Bruno Tabacci. «Da Obama alla Merkel si guarda a lui come il garante della tenuta dell'Italia, insieme al premier Monti». E dunque chi ha intenzione di indebolire l'Italia, chi punta a guadagnare sull'instabilità, all'interno e all'esterno, potrebbe avere interesse a indebolire Re Giorgio. L'inventore del governo Monti, il traghettatore verso il 2013, il regista della transizione.

Una transizione che nelle ultime settimane si è fatta ancora più travagliata. Non solo per i dati economici allarmanti che segnalano un Paese in recessione almeno fino al termine del prossimo anno, o l'attesa di un'ondata speculativa per agosto che costringe il governo ad attrezzarsi con una war room di emergenza, come se fosse in corso una guerra. C'è l'incertezza politica ad angosciare il presidente, il buio sul futuro.

Al momento di affidare all'ex rettore della Bocconi l'incarico di formare il governo della strana maggioranza, il 13 novembre, nei piani di Napolitano c'era un doppio obiettivo, una divisione dei ruoli: ai tecnici la "mission impossible" di affrontare l'emergenza economica, con i provvedimenti richiesti dall'Europa, dalla riforma delle pensioni al mercato del lavoro, ai politici e ai partiti il compito di riscrivere le regole, le riforme costituzionali e la nuova legge elettorale, fino al termine naturale della legislatura, «quando», dichiarò quella sera il presidente designando Monti alla guida del governo, «la parola tornerà agli elettori senza che sia stata oscurata o confusa alcuna identità».

Attese deluse, per non dire di peggio. A otto mesi di distanza il governo Monti continua la sua battaglia quotidiana contro lo spread, sulle riforme invece i partiti si avvitano nell'inconcludenza, nonostante i ripetuti e sempre più irrituali appelli presidenziali alle forze politiche, a uscire dall'inerzia per recuperare credibilità, a fare presto. C'è un'ira gelida nei rimproveri presidenziali, come di chi si sente tradito.

Visto dal Quirinale, fa molta impressione il ritorno in campo di Silvio Berlusconi, l'attore politico che più di ogni altro punta sullo sfascio, con gli interventi no euro e l'attivismo sul palcoscenico internazionale, tra interviste alla stampa tedesca e annunciati colloqui con Putin. Preoccupa l'ascesa del movimento di Beppe Grillo, con cui il presidente ha duramente polemizzato dopo il voto amministrativo («non c'è nessun boom...»), ricambiato senza tanti complimenti.

Suscitano rabbia e amarezza gli attacchi di Antonio Di Pietro, nell'ultimo l'ex pm di Mani pulite rilancia il «resistere resistere resistere», un remake di Francesco Saverio Borrelli di dieci anni fa, solo che allora l'alto magistrato si ribellava alle leggi ad personam del governo Berlusconi, mentre qui il capo di Idv si schiera contro il presidente della Repubblica. Suggerendo l'equazione Napolitano come Berlusconi, inaccettabile per il Colle.

«Le polemiche contro il presidente non si sono mai fermate nelle ultime settimane, neppure un giorno», spiegano al Quirinale, dove è stato ovviamente messo nel conto che il ricorso davanti alla Consulta le avrebbe fortemente rilanciate. Ma intervenire è diventata una scelta obbligata, anche per una certa timidezza dei partiti, e soprattutto del Pd, nella difesa di Napolitano. Un legame, quello tra il presidente e il "suo" partito, che negli ultimi mesi si è via via raffreddato. Al punto che qualcuno lo paragona ai tempestosi rapporti tra i presidenti democristiani e i leader di piazza del Gesù che nella prima Repubblica segnavano la fine dei settennati.

Mentre l'attuale capo dello Stato si sente in trincea, tra i partiti il dopo-Napolitano è già cominciato. Tattiche sottili e i primi colpi bassi. È l'obiettivo del Quirinale che fa da sfondo alle mosse di Pier Ferdinando Casini delle ultime settimane: dall'apertura al Pd di Bersani all'invocazione di un patto tra progressisti e moderati. Il tentativo di ritagliarsi lo spazio del gran mediatore tra le forze politiche, forte per paradosso di guidare un piccolo partito centrista, una sorta di Saragat del Duemila.

Anche se, giura chi lo conosce bene, «vedrete, Pier è consapevole dei suoi limiti, alla fine si accontenterà di fare il presidente del Senato». È al Quirinale che si è riferito Bersani quando nella relazione all'ultima assemblea del Pd ha disegnato una nuova funzione per il prossimo presidente, un «ruolo di garanzia di fronte all'Europa», anche rispetto al premier che uscirà dalle urne nel 2013.

Come dire che con un presidente garante della continuità con il percorso di riforme richiesto dall'Europa, l'avvento di Bersani a Palazzo Chigi non dovrebbe preoccupare nessuno. «Sono finiti i tempi del presidente notaio sbiadito», concorda Tabacci. «Lo schema di Bersani a Palazzo Chigi obbliga i partiti a scegliere una figura di prestigio internazionale per il Quirinale. E io di nomi possibili ne vedo solo tre: Giuliano Amato, Romano Prodi e soprattutto Monti».

Ma la lista dei pretendenti potrebbe allungarsi: al Quirinale pensa Massimo D'Alema che nelle ultime settimane ripete, anche a costo di scontentare gli uomini della segreteria Bersani, che per il centrosinistra il futuro per il dopo-Monti, nel 2013, sarà comunque «con Monti». In continuità con il programma dell'attuale governo, certo, ma chissà, forse anche confermando il premier a Palazzo Chigi. Perché, se Monti dovesse restare in carica anche dopo le elezioni alla guida di una grande coalizione, la presidenza della Repubblica toccherebbe a un politico, magari a un esponente della sinistra.

Ed è anche illusorio pensare che la questione del Quirinale possa restare fuori dalla prossima campagna elettorale: nel centrosinistra c'è chi vorrebbe addirittura giocare d'anticipo. Con un argomento in apparenza ineccepibile: se il presidente con Napolitano è diventato il vero cuore del sistema, come facciamo a non dire agli elettori chi sarà il nostro candidato? Tanto più con un Berlusconi scatenato che cavalcherà il presidenzialismo.

Il contrario di quello che pensa l'attuale presidente. Per Napolitano la priorità assoluta è portare a buon fine la transizione. Nei mesi scorsi si era affacciata la possibilità di una rielezione, o anche di una conferma a tempo, come previsto nella proposta di Assemblea Costituente lanciata da Marcello Pera, da eleggere nel 2013 con il nuovo Parlamento, della durata di un anno e con Napolitano in regime di proroga.

Il presidente considera l'ipotesi sensata e interessante, ma ha fatto conoscere la sua indisponibilità. Resterà al Quirinale fino alla scadenza del mandato, maggio 2013, poi toccherà a un altro. Un annuncio che avrebbe dovuto fermare sul nascere eventuali operazioni contro la sua persona. Invece, temono ora al Quirinale, saranno dieci mesi di emergenza. Con l'obiettivo di condizionare la prossima legislatura. E indebolire colui che finora ha arginato lo Sfascio.

 

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