Giulia Cazzaniga per "la Verità"
Appare in controluce sullo schermo del computer, dietro di lui la finestra, cielo terso, montagne, un tetto di legno. Ha una canottiera, e gli chiedi se sia tornato da un allenamento ma no, «fa caldo, anche qui, in Alto Adige». Stanno per tornare a casa i due figli con la moglie, andrà ad aprire. È gentile, si concede a lungo.Alex Schwazer è il più giovane vincitore della storia dell'Olimpiade, a 23 anni, quando stacca gli avversari nei 50 chilometri di marcia nel 2008.
Nel 2012 è positivo a un controllo antidoping, confessa e chiede scusa. Cerca di tornare all'Olimpiade del 2016, ma dicono sia ancora positivo. Da lì la sua battaglia, che si è chiusa per la giustizia ordinaria, a Bolzano, pochi mesi fa: chiesta l'archiviazione dell'indagine penale per non aver commesso il fatto, secondo il gip i campioni di urina furono alterati. Per la giustizia sportiva, però, Schwazer è ancora colpevole, squalificato fino al 2024. Alle Olimpiadi non è potuto andare. Se ci dessimo del tu?
«Grazie, sì, per me è più facile».
Innanzitutto: come stai? Qual è la tua quotidianità?
amadeus intervista alex schwazer
«Sono tornato a vivere nel mio Comune d'origine, anche se in una frazione più a valle, Stanghe di Racines, con Kathrin e i nostri figli. Da cinque anni alleno podisti amatori, sia qui in regione sia online, sportivi da tutta Italia: li seguo personalmente e quotidianamente. Sto bene».
Chi o cosa ti ha salvato in questi quattro anni e mezzo spesi a dimostrare la tua innocenza?
«Tre sono i miei punti di equilibrio. Il primo è la famiglia: quando sono tornato da Rio de Janeiro accusato di doping ho pensato a come essere responsabile per loro, questo ha tolto il pensiero fisso "sono una vittima"».
Avevi appena scoperto di aspettare la prima figlia, Ida.
«Sì, nata nel 2017. Con loro, ho sempre avuto al fianco il mio avvocato Gerhard Brandstätter, il mio allenatore, e quelli che hanno sposato la mia causa, lottando al mio fianco, come la mia manager Giulia Mancini. Da solo, con una controparte molto potente come la mia, non avrei potuto farcela».
Te ne chiederò tra poco. Dimmi però qual è il terzo punto di equilibrio.
«Sono testardo, molto. Avrei potuto vivere accettando quel che mi avevano fatto, ho scelto di non farlo, sapevo che sarebbe stata ben più lunga di una 50 chilometri».
Perché non sei a Tokyo si sa.
«Avevamo chiesto una sospensione della squalifica pur sapendo che sarebbe stata difficile visti i tempi stretti. Ma dovevo qualificarmi, avevo una sola possibilità».
Dicono che eri pronto, con tempi da podio.
«I miei 36 anni non sono pochi per le gare. Quando siamo partiti per questa "avventura olimpica", chiamiamola così, non sapevo se sarei stato in grado di tornare ai livelli di cinque anni fa. Ma avevo deciso solo di dare il massimo. Ad aprile ho raggiunto una buona forma, e con una preparazione senza intoppi credo sarei arrivato a una condizione molto simile a quella con cui sbarcai a Rio».
Eri andato per vincere e non gareggiasti. So che presto la tua storia sarà un docufilm, e poi che stai scrivendo un libro
«Sarà in libreria entro l'anno, con Feltrinelli. Ho sempre rimandato ma ci sono tante cose da raccontare sulla prima parte della mia vita, poi sulla seconda chissà».
Anticipazioni?
«Non sarà un libro di inchiesta, ma su di me».
Perché?
«Nella mente delle persone restano in testa solo le ultime cose. Io però non mi vedo solo come vittima, o come dopato, o come campione olimpico. Sono un ragazzo che ha avuto dei sogni».
Quando iniziasti?
«A 5 anni giocavo a hockey su ghiaccio in squadra, a 14 decisi di fare sport anche d'estate. Seguii un vicino di casa, che correva, mi appassionai non tanto all'atletica, quanto al concetto di endurance, resistenza. Mi piaceva l'andare lontano». Da lì non ti sei mai fermato? «No, anzi. A 18 anni ero cresciuto in altezza, mi ero convinto che questo sport non fosse il mio destino. Questione di peso, che incide. E poi qui la marcia è uno sport atipico, mi mancavano le basi. Ho detto al mio allenatore, un ex pugile: basta. Lui però mi costrinse a un altro sport di durata. Per accontentarlo sono arrivato al ciclismo».
Veloce pure sulla bici?
«Ero troppo forte per la squadra del posto. Mi hanno fatto test in laboratorio sull'ergometro e inserito in un team bresciano di professionisti. Un mese e mezzo dopo mi sono trovato in una squadra bresciana della categoria dilettanti, io che non avevo mai fatto una gara in bici. Un anno in mezzo a loro che correvano da 10 anni, a collezionare cadute».
Solo quattro anni dopo avevi in tasca l'oro olimpico.
«Sì, le cose sono andate veloci, poi: da quella vittoria al campionato italiano di marcia junior, a Reggio Calabria, la ruota ha iniziato a girare, vedi come sono le coincidenze della vita».
Dopo il 2012 il tuo allenatore è stato Sandro Donati. È appena uscito il suo libro edito da Rizzoli, I signori del doping. Il sistema sportivo corrotto contro Alex Schwazer. Chi è Donati per te?
«Nel 2014 ho maturato l'idea che la mia carriera non sarebbe potuta finire così, ma non volevo tornare alle gare senza dare garanzie, e desideravo anche nuovi stimoli in allenamento. Lui è un grande allenatore, e si è dedicato alla lotta al doping. Volevo fare una cosa stupenda, l'ho chiamato».
alex schwazer pechino 2008 foto mezzelani gmt 25
Hai dovuto convincerlo?
«Gli inizi sono stati difficili. Per lui bastava un errore ed eri un dopato seriale. Pian piano, tra allenamenti e controlli continui, ci sono riuscito, a convincerlo. Finché a un certo punto ero io a dover frenare l'aspettativa che aveva su di me».
La cosa più difficile del vostro rapporto?
«Fargli capire che ero stato in un tunnel e che nel doping avevo intravisto forse una possibilità di via d'uscita, ma che non mi apparteneva. Con lui pensai anche di mollare, un paio di volte. Ero lontano da casa, e aveva dubbi giornalieri su di me».
Poi siete diventati anche amici.
«Molto, sì. Sandro Donati ha una qualità più che rara nello sport: quando vede un'ingiustizia, la denuncia. E non gliene frega se non è poi ben visto dalla federazione o dal Coni. Sai com' è invece in Italia: finché sei amico, bene, ma se pesti i piedi a certe persone rischi che te la facciano pagare».
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E voi dite che è andata proprio così. Donati definisce un'infame imboscata quella a vostro danno. Sottoscrivi?
«Sì. Tieni conto che questo per lui non è stato il primo caso di sabotaggio: qualcosa di molto simile gli accadde nel '96, con l'ostacolista Anna Maria Di Terlizzi: fu trovata positiva, ma era un errore. Volevano screditarlo. Tante volte ne parlammo prima del 2016: credevamo non avrebbero potuto rifare una roba del genere. Sarebbe bastato squalificarmi in gara, ora è chiaro che volevano far fuori anche lui».
In parole povere, cosa c'è dietro?
«Un sistema, che si vuole difendere. Perché se avesse accettato che io sono una vittima, sarebbe stato chiaro che c'è un problema sui controlli. Che non sono sicuri, ancora oggi».
Perché nessuno alza la voce insieme a te?
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«Perché gli atleti sperano non succederà mai a loro, preferiscono stare zitti prima di mettersi contro qualcuno. Se si arrivasse fino a non gareggiare prima di aver ottenuto regole serie, qualcosa potrebbe cambiare».
Accadrà?
«Non lo so, ma non credo».
Quanto ti è costato cercare la tua verità, in termini economici?
«Per fortuna il mio avvocato è come una specie di padre, per me, oggi, e lotta contro un'ingiustizia che lui stesso non può tollerare. Però per i ricorsi a livello sportivo saremo sui 150-200.000 euro».
Tanti.
«Sì, ma è così. Se vuoi fare appello devi pagare 21.000 franchi e altrettanti per la controparte, in totale fanno 42.000. E quindi gli atleti non vanno avanti. Non è giustizia, questa. Ti mette ko a livello finanziario, impedisce il diritto alla verità».
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A Parigi, nel 2020, la condanna a Lamine Diack, l'ex presidente della federazione di atletica leggera (Iaaf, oggi World athletics) per corruzione: avrebbe dato e ricevuto tangenti per nascondere casi di doping di atleti russi.
«Avevo già i miei forti dubbi, nel libro lo scriverò. Tante cose non avevano più una logica. Parigi è stata una soddisfazione, anche se tante persone che erano in federazione sono ancora lì. Giuseppe Fischetto, benché indagato (condanna in primo grado, poi assolto, ndr), ha continuato a essere supervisore dell'antidoping. Sebastian Coe era il vice di Diack, non si è accorto di nulla, beato lui».
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Oggi guida l'atletica internazionale. Un mese fa a «Lord Coe» Dario Nardella ed Eugenio Giani hanno dato le chiavi di Firenze.
«Non mi sorprendo più: ora ci sono le Olimpiadi e bisogna andare d'accordo. Gli sconfitti sono coloro che fanno onore a chi ha detto all'Italia che non le conveniva mettersi dalla parte sbagliata della storia sul mio caso. Non certo io».
Cosa vedi nel tuo futuro?(Ci pensa su)»
SANDRO DONATI ALLENATORE DI SCHWAZER SANDRO DONATI E SCHWAZER
Quando perdi la seconda Olimpiade per un'ingiustizia paradossalmente non fa una grossa differenza. Tolta la parentesi sportiva, ti ribadisco: sto bene, ho un lavoro che mi piace e con tante richieste, una famiglia stupenda. Mi reputo una persona felice e fortunata. Non ho un desiderio particolare, forse che le cose proseguano così come vanno, che i miei figli crescano bene, questo mi basta».
Basta con i tribunali?
«Ho pensato di ritirare il ricorso al Tribunale federale svizzero, ma non lo abbiamo fatto: se decidessimo di andare davanti alla Corte europea dei diritti dell'uomo, ci mancherebbe l'istanza di merito. Un nuovo processo sportivo non lo farò, per pura questione economica».
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