“MACCHÉ SUPEREROE, ERO UN ORFANO CHE IL CALCIO HA RESO ADULTO…” – GIGI RIVA RACCONTA L’IMPRESA DELLO SCUDETTO DEL CAGLIARI DI 50 ANNI FA: QUANDO DALL’AEREO VIDI LE LUCI DELLA CITTA’ PENSAI: ‘MA DOVE SONO ARRIVATO? IN AFRICA?’ ERO INCAZZATO NERO. POI SONO STATO ADOTTATO DA UNA SQUADRA E DA UNA CITTÀ. E INFINE DA UNA REGIONE- MI VOLEVA LA JUVE, CHIESI AI COMPAGNI. MARTIRADONNA DISSE: RESTA, COSI’ FINISCO DI PAGARE LA CUCINA. NON AMO LA RETORICA, LE CELEBRAZIONI. IO ERO PIENODI INSICUREZZE. MA GRAZIE AI MIEI COMPAGNI SONO DIVENTATO QUELLO CHE TUTTI CONOSCONO” – VIDEO

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Luca Telese per “la Verità”

 

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«Non ho mai amato le celebrazioni, i momenti sacri. L' unica cosa solenne del calcio sono i 90 minuti». E ancora: «Non mi piace la retorica, la narrazione dei campioni d' acciaio che vincono tutto. Io ero un orfano che il calcio ha reso adulto. Ero un uomo pieno di debolezze umanissime, in una squadra di uomini come me, fatti di carne e di ossa, che erano diventati la mia famiglia».

 

Gigi Riva soffia via una nuvola di fumo e mi guarda negli occhi: «Noi non siamo stati super eroi, fotomodelli da copertina, campioni di ingaggi. Siamo diventati campioni d' Italia perché quando eravamo insieme ci trasformavamo, perché la cosa più bella di questo sport è che un gruppo può davvero diventare più della somma dei singoli talenti. Io ho amato il pallone per questo».

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Un pomeriggio nella casa di Gigi Riva, con i mobili sobri stile anni Sessanta, le collane con gli accrediti plasticati degli stadi di tutto il mondo (raccolte da accompagnatore della nazionale azzurra) appese come un trofeo alla parete. Riva ride di gusto, guardando la matassa: «Quella della nazionale è stata una stagione felice».

 

Un pomeriggio a casa di Riva parlando di «quella volta che Boniperti», i leggendari no alla Juventus, i segreti di Dino Zoff e di Enrico Albertosi, il rapporto delicato tra la storia familiare e il romanzo di formazione di un campione unico. Un pomeriggio guardando il calcio di oggi con gli occhi del calcio di ieri. E persino con il sorriso: «Negli anni Sessanta con l' ingaggio di serie A sopravvivevi appena. Vivevamo di premi partita. Ci guadagnavano il pane punto dopo punto. E il severo magazziniere del Cagliari non mi cambiava gli scarpini scuciti dicendomi: "Gigi, abbiamo un calzolaio straordinario che te li rifà nuovi!". Ah ah ah. Il bello è che era vero». Un pomeriggio viaggiando nella memoria tra Leggiuno, Lombardia, terra natía, e Cagliari, Sardegna, patria adottiva.

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Sono passati cinquant' anni dallo storico scudetto del Cagliari, ma a pensarci bene è molto più di un secolo.

Tommaso Giulini, il presidente che ha rilanciato il Cagliari nel calcio che conta, e che ha riportato i rossoblù in gara per l' Europa, ha dovuto sudare sette camicie perché Riva accettasse la nomina a presidente onorario della squadra. Gigi è l' uomo più schivo del mondo, non ama i galloni di latta: «Lo sai, è un classico, non solo del calcio. Le vecchie glorie che vogliono mettere il becco, che amano il pennacchio e la ribalta». Ma è stata proprio la ritrosia a far scattare il congegno del racconto, in quel pomeriggio festivo. Riva spiegava che dopo la proposta di Giulini aveva trascorso «due notti in bianco», che era stato tentato di chiamare il presidente e dirgli: «Tommaso, grazie mille ma non accetto». E che gli era passata tutta la vita davanti. E che vita: la storia inizia con due lutti drammatici, la vita in collegio. Pausa, sigaretta: «Mio padre era stato barbiere, sarto.

Nel 1953 era andato a lavorare in fonderia, faceva l' operaio quando morì per un infortunio sul lavoro».

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La madre Edis lavorava in filanda e faceva le pulizie: lo manda in collegio. E l' odio di Gigi per quella struttura non lo lascerà mai più: «Una formazione durissima. Il peso, l' umiliazione di essere poveri, le camerate fredde, il mangiare da schifo, il dover dire sempre grazie a chi portava il pane, i vestiti usati, e pregare per i benefattori, e dover stare sempre zitti, obbedienti, ordinati, come dei bambini vecchi». È l' Italia ancora povera, quella degli anni Sessanta: «Ho dovuto fare i conti per tutta la vita, con il ricordo di quelle notti».

 

Ed è un' immagine terribile ancora oggi: «È quando stai per addormentarti che la giornata ti cade addosso. Quante volte aspettavo quel momento in cui tornati in camerata potevo mettere la testa sotto le coperte, chiudermi in una gabbia fatta con le lenzuola, un filtro che mi isolasse da tutti». Altra pausa. «Restare solo così: e piangere».

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Gigi arriva al Legnano a suon di gol. Il mancino che lo porterà nella storia è già esplosivo. Ma proprio quando si sente accolto lo raggiunge la notizia della morte della madre: «Nella mia memoria privata Legnano è questo: il giorno in cui mi arriva la notizia più terribile della mia vita. Mia madre non c' è più, sono solo al mondo». Giocava in serie C, anno 1963.

E proprio in quel momento un altro trauma, la cessione al Cagliari: "Non è leggenda. Ero arrabbiato con il mondo. Incazzato nero"».

 

Lo aspetta un viaggio rocambolesco sull' aereo a elica che di lì a poco lo porta in Sardegna: un 212 Fiat trimotore. Il colpo di mercato è una storia da film: «All' Olimpico, per la nazionale Juniores, 13 marzo 1963, molti osservatori in tribuna: per il Cagliari ci sono Silvestri, Tognon e Arrica. Nell' intervallo chiudono l' accordo con il Legnano per 37 milioni». Ma nel secondo tempo «io segno il 3 a 2 della vittoria e il Bologna a fine partita offre 50 milioni». Tuttavia il presidente del Legano non si rimangia la parola: «I dirigenti si erano già stretti la mano e quindi niente da fare: Cagliari. A me non lo dice nemmeno il presidente, ma il mister Lupi». Finisce su quell' aereo tra Milano e Cagliari, viaggio infinito.

«Quattro scali! Non era un aereo, ma una corriera Quando ho visto per la prima volta le luci del golfo di Cagliari, nell' ovale del finestrino buio, ho pensato davvero: "Ma dove sono arrivato? In Africa?"».

 

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Sospira: «Ero un ragazzino di diciassette anni che non si era mai allontanato da dove era nato, e che adesso arrivava in un luogo sconosciuto senza sapere se mai sarebbe tornato a casa sua». Ad Alghero, addirittura, si informa se c' era un volo che tornasse a Milano.

Nulla è facile. Nei giorni dell' esordio, Gianni Brera, che poi conierà l' appellativo di Rombo di tuono, scrive che sembrava «zoppo». A aggiunge: «Gioca solo con il sinistro».

 

Riva oggi ride: «Vero. Ma inizio ad ambientarmi in città. La cosa bella, da subito, è stato il gruppo, la squadra. Quelli di noi che non erano sposati stavano alla foresteria. Dormivamo insieme, vivevamo insieme. Mangiavamo insieme». Gli spiace molto la foresteria, dove stanno gli scapoli: «Tomasini, Nenè, Cera ed io».

 

Dividendo la spesa acquistano una famosa Fiat 600. E l' istruttore della scuola guida gli dice: «Se segni domenica ti do la patente subito!». Realizza una doppietta e vince la scommessa. Torna a Cagliari dall' istruttore: «Era l' uomo più felice della terra, contento che avessi segnato "per lui". Il giorno dopo guidavo da solo per le vie di Cagliari».

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Sul campo, non c' erano sponsor: le scarpe, gli occhiali, le tute. Tutto era razionato dalla società. Approfitta dei famosi scarpini Valsport «Gigi Riva», sogno degli adolescenti del 1970. E il bomber si fa serio: «Adesso ti rivelo un segreto. Li avevo disegnati io: materialmente, intendo. Erano bellissimi, per l' epoca: tutti in cuoio spesso. Avevano un rinforzo a doppia cucitura sulla punta e sul tallone, ovviamente. E poi altri due raddoppi di cucitura intorno al plantare. Così, vedi? Sotto l' arcata e sull' esterno».

 

Sospiro: «Spesso spaccavo gli scarpini, mi facevano male i piedi, dopo le partite». Dice che i denti, per via della postura e dei digrignamenti gli danno noia anche oggi. Così firma il contratto con la Valsport, solo a patto che rifornisse anche i compagni e che avessero le quattro cuciture.

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Racconta ancora: «A me gli scarpini si scucivano, si spaccavano. Letteralmente. Dopo certi interventi, dopo certi tiri». Un giorno Fabio Capello lo osserva durante un allenamento: «Quattordici cross, quattordici tiri al volo, quattordici centri consecutivi: Gigi faceva paura».

 

Si entra nella favola, quasi senza rendersi conto: «Siamo andati avanti così: un gruppo di ragazzi che amavano follemente il calcio, una squadra vera, un grande allenatore, e passo dopo passo siamo arrivati al tricolore». Per tutto il 1969 sono primi in classifica, ma non ne parlano nemmeno: «Poi Scopigno nello spogliatoio di Bari dice una frase. Entra e fa: "Se non perdiamo oggi viviamo lo scudetto"». Altra pausa: «Infatti non perdemmo a Bari e vincemmo lo scudetto». Ne posso dire una su Albertosi? Restiamo in silenzio: «Zoff era bravissimo a parere tutto il possibile. Ma Ricky era il numero uno nel parare l'impossibile».

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Il primo trofeo al Sud, in un campionato, un' isola in festa.

 

Oggi Riva dice: «Io ero orfano e poi sono stato adottato da una squadra e da una città. E infine da una regione». In Messico, in quella stessa estate, diventa il beniamino d' Italia, il marcatore azzurro più prolifico della storia. La Juve lo vuole a tutti i costi. E qui c' è un aneddoto sublime: «Dopo la terza volta che avevo rifiutato il trasferimento loro avevano capito che non mi sarei mosso. Tuttavia mi chiamavano ogni anno. Ogni anno!». Un po' tutti: «Sì Agnelli, certo. Mi voleva. Ma quello che proprio non mollava mai era Boniperti. Mi chiamava ogni anno».

 

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Ne parlava nello spogliatoio: «Ai miei compagni dicevo: se a voi va bene non mi muovo. Una volta Martiradonna mi fa: "Ecco, rimani, così finisco di pagare la cucina"».

Un giorno, negli anni Duemila, in un aeroporto Riva incontra qualcuno della Juve che gli dice: «Gigi, chiamiamo insieme Boniperti e gli facciamo gli auguri?». Accetta: «Prendo la linea io per un effetto sorpresa. Faccio: "Sono Gigi Riva!"». E lui? «Sento dall' altra parte del telefono che lui c' è.

 

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Ma non dice nulla. Gli faccio: "Mi senti Giampiero?". Risposta: "Ti sento, ti sento Gigi". E fa una pausa. Allora gli chiedo: "Tutto bene?". E lui, serissimo: "Bene, sì. Ma non sarei sincero se non ti dicessi che io questa telefonata, da te, l' aspettavo mezzo secolo fa"».

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La serata sta per finire: «Non ho mai amato il trionfalismo. La retorica. Noi eravamo un gruppo di ragazzi che siano diventati uomini sul campo. Io ero pieno di dubbi, di insicurezze. Ma grazie ai miei compagni sono diventato quello che tutti conoscono».

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