LECLERC A SCHIENA DRITTA – PIROSO LODA LA SCELTA DEL "PRINCIPINO MANNARO" FERRARISTA DI NON INGINOCCHIARSI PER CELEBRARE IL "BLACK LIVES MATTER" – “HA GUADAGNATO UN POSTO SUL PODIO DELL’INDIPENDENZA DI GIUDIZIO RIFIUTANDO L'INCHINO DAVANTI AL TOTEM DEL POLITICAMENTE CORRETTO". UNA RESISTENZA AL PERBENISMO DEI VIP "PRONTI AD ADERIRE ACRITICAMENTE ALLE CAMPAGNE DEL MOMENTO PERCHÉ FANNO GUADAGNARE FACILI CONSENSI SOPRATTUTTO SUI SOCIAL…"

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Antonello Piroso per La Verità

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1968, Olimpiadi in Messico. Gli statunitensi Tommie Smith e John Carlos, primo e terzo nei 200 metri piani, sul podio per la premiazione chinano il capo alzando il pugno chiuso guantato di nero.

 

Una manifestazione «iconica» di protesta a favore dei diritti umani, come precisò Smith, e non un tributo al saluto del Black Power, il movimento per il contropotere afroamericano nell'anno in cui negli Usa erano stati assassinati Martin Luther King e Robert Kennedy.2020, Gran Premio d'Austria.

 

 

Il pluriridato Lewis Hamilton - en passant, il più pagato della Formula 1, 45 milioni di euro a stagione, strameritati per carità, ma pur sempre 225 volte quello che percepisce dalla Williams il suo collega George Russell, 200.000 all'anno, un povero bianco - decide di genuflettersi in memoria di George Floyd. Hamilton è imitato da molti piloti, 13, ma non tutti, 6.

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Che indossano sì la maglia nera con la scritta end racism, ma rimanendo in piedi: Kimi Raikkonen, l'ultimo campione del mondo della Ferrari, Max Verstappen, Carlos Sainz (oggi in McLaren e nel 2021 a Maranello), Daniil Kvyat e Antonio Giovinazzi.E soprattutto Charles Leclerc, monegasco di nascita ma italiano d'adozione da quando è alla guida della Rossa.

 

Il Principino Mannaro -gentile, educato, un animale a sangue freddo pronto ad attaccarsi alla tua giugulare se serve alla sua carriera - vedi alla voce Sebastian Vettel - spiega: «Penso che la cosa importante siano i fatti e i comportamenti quotidiani più che i gesti formali. Non mi metterò in ginocchio a terra, ma ciò non significa affatto che sono meno impegnato degli altri nella lotta contro il razzismo».

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Rivendicando così autonomia di comportamento e indipendenza di giudizio, e rifiutando l'inchino davanti al totem del politicamente corretto, che postula un'adesione incondizionata a iniziative, simboli e slogan plateali e «luogocomunistici». Perché non costano nulla e fanno guadagnare facili consensi soprattutto sui social, dove lo sdegno e il dolore vengono livellati e trasformati in posa, tic, rito «buonista» alla lunga stucchevole.

 

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Da #JeSuisCharlie all'#IceBucketChallenge, la sfida della secchiata di ghiaccio, per sensibilizzare e aiutare la ricerca sulla terribile Sla, sono molteplici gli imperativi categorici di stampo moralistico-ricattatorio: se non partecipi, come minimo sei colpevole di favoreggiamento.

 

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La Cccp, la Coscienza collettiva corretta politicamente (acronimo che in cirillico sta per Urss), non tollera dissidenza, ma neppure semplici distinguo. Per cui non solo si doveva solidarizzare contro i terroristi islamici che avevano fatto una strage nella redazione di Charlie Hebdo, ma si doveva sottoscrivere anche stile e contenuti della rivista satirica.

 

Così anch' io sono finito alla gogna perché «contro la libertà d'espressione» (per aver sostenuto che non condividevo ogni numero del giornale) e per essere «ipocrita», avendo fatto mia la parola d'ordine (ho dovuto spiegare che mi ero associato proprio per rispetto della libertà d'espressione: non si può essere uccisi per una vignetta, una canzone, un libro, un film).

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Quanto ai gavettoni a scopo benefico, nell'estate del 2014 perfino il presidente del Consiglio Matteo Renzi si prestò alla bisogna, mentre in America scesero in campo marpioni del beau geste come Mark Zuckerberg, Bill Gates, Jeff Bezos, Tim Cook di Apple - e pazienza se poi qualcuno di loro è accusato di sfruttare la manodopera interna o dei Paesi più poveri del mondo per i propri affari - ma anche un reazionario come l'ex presidente George W. Bush, mentre a sorpresa declinò l'invito Barack Obama, che però fece una donazione di 100 dollari. Una miseria, verrebbe da dire, e per fortuna che Obama non vive in Italia: perché da noi Luciana Littizzetto e Fiorello sono finiti sulla graticola della Santa Inquisizione via Web come milionari tirchi, accusati di essersi prestati a una «pagliacciata di vip di me...».

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Lei perché si sarebbe limitata a donare 100 euro (annunciati con tanto di video). Lui perché di quattrini non avrebbe proprio parlato. Critiche cui lo showman replicò in punta di fioretto, con un linguaggio da Dolce Stil Novo: «Nessuno di voi mi costringerà a mostrare il bonifico o l'assegno, perché mi dovete proprio ciucciare... Non rompetemi i co... devo rendere conto alla mia coscienza, non a quattro teste di ca...». Com' è che si dice? C'è sempre uno più puro o più «buono» di te che ti epura. Proprio per questo non si dovrebbe omaggiarla, la bontà che si fa autopromozione, deperendo in buonismo da sepolcri imbiancati, grazie alle armi di conformismo di massa.

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Bisognerebbe stare con Nanni Moretti che quasi 30 anni fa nel suo film Caro Diario sosteneva: «Anche in una società più decente di questa, io mi troverò sempre con una minoranza di persone». Salvo poi scoprire che se non ti accodi alla maggioranza che lo osanna, azzardandoti a esprimere un giudizio meno che lusinghiero sulla sua intera produzione cinematografica, vieni bollato (neanche da lui, quanto dai pasdaran del Pensiero Unico e dell'ideologia del cinema d'autore) come un provocatore, un «rosicone», uno sfigato da esiliare da ogni circolo Aniene della gente che piace.

 

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Vale per lui, come per Roberto Benigni, per Walter Veltroni romanziere e cineasta, per il regista Paolo Sorrentino, Jovanotti e Fiorello di cui sopra, ma l'elenco dei «buoni» refrattari alle critiche è lungo.

 

E non serve a nulla provare a spiegare che sei il primo a riconoscere sinceramente le loro qualità e le loro performance da numeri uno, ma che non tutto ti può o deve piacere sempre e comunque: ti imbavagliano con la lettera scarlatta, e amen.

 

Il Principino Mannaro Leclerc ci ha ricordato che «c'è chi dice no», citando il mitico Vasco Rossi che non ha esitato a prendere di petto i «socialmentecatti» (li ha bollati così, gli imbecilli che gli ricordavano che lui era il Blasco per merito... loro!), ma anche a rimarcare un «giù le mani da quel testo» quando se ne sono impossessati i politici: tipo Matteo Salvini o Gianluigi Paragone che l'hanno usata il primo per il «no» al referendum costituzionale del 2016, l'altro per annunciare - quando era ancora grillino - che non avrebbe votato la fiducia all'attuale governo Pd-M5s.

NANNI MORETTI NANNI MORETTI

 

E a proposito di class action propagandistiche da cui non si può dissentire: che dire della copertina 2018 del mensile Rolling Stone contro Matteo Salvini, «noi non stiamo con Salvini», scelta assolutamente legittima, ma con quell'aggiunta da fuori di testa: «Da adesso chi tace è complice», che mi ha fatto diventare salviniano per un giorno? Con corollario di polemiche perché l'appello non era tale, ma solo una compilation di dichiarazioni anti Salvini tra cui quelle di Enrico Mentana che smentì di aver aderito (anzi, per meglio dire, specificò che interpellato aveva risposto no, ma che ci si era ritrovato lo stesso).

 

vasco rossi vasco rossi

Chi si firma è perduto, come chi aderisce acriticamente a ogni conformistico diktat.E viva il ribellismo intellettualmente anarchico. Se volete tirarvela da intellettuali, citate i Consigli a un giovane ribelle di Christopher Hitchens o La politica del ribelle di Michel Onfray, perché in Italia, si sa, per essere presi sul serio bisogna far finta di essere persone serie. Se invece volete essere meno elitari e più pop, va sempre bene Paolo Villaggio con il suo liberatorio: «La corazzata Potiemkin è una cagata pazzesca». Perché in fondo in ognuno di noi c'è un Ugo Fantozzi in attesa di alzare la testa e di urlare il suo personale «io non ci sto».

 

Je suis Charlie Je suis Charlie

 

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