UNA "BEAUTIFUL MIND" IN PANCHINA - L'ALLENATORE DELLO STOCCARDA PELLEGRINO MATARAZZO, 44ENNE NATO IN NEW JERSEY DA GENITORI CAMPANI, È UNA DELLE RIVELAZIONI DEL CAMPIONATO TEDESCO - EX ASSISTENTE DI JULIAN NAGELSMANN ALL'HOFFENHEIM, SI È LAUREATO IN MATEMATICA ALLA COLUMBIA UNIVERSITY: "GLI STUDI MI PERMETTONO DI DIALOGARE IN MANIERA PIÙ APPROFONDITA CON GLI ANALISTI STATISTICI. MA IL CALCIO NON È SOLO LOGICA. RIGUARDA CUORE, MENTE ED EMOZIONI…"

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Stefano Scacchi per www.lastampa.it

 

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È una storia che unisce le nocciole dell’Irpinia alla Columbia University di New York. E conduce alla panchina dello Stoccarda in Bundesliga. Così lo statunitense Pellegrino Matarazzo, 44 anni, nato in New Jersey da genitori italiani emigrati dalla Campania, allenatore e matematico, ex assistente di Julian Nagelsmann all’Hoffenheim, è diventato uno dei tecnici emergenti del campionato tedesco, dopo una lunga gavetta. Ha riportato lo Stoccarda nella massima divisione tedesca due anni fa e in questo avvio di stagione non esaltante si è tolto la soddisfazione di andare a pareggiare 2-2 in casa del Bayern Monaco.

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Lei è laureato in matematica in uno degli atenei più prestigiosi del mondo, però ha scelto il pallone senza avere sicurezza di sfondare.

«Il calcio è sempre stato il mio sogno, ma volevo tenermi una seconda opzione aperta. Mio papà mi ha incoraggiato a tentare comunque la strada nel calcio. Mia mamma, invece, quando ero in Germania a giocare in quarta categoria, mi diceva di tornare negli Stati Uniti per cercare un lavoro legato ai miei studi. Come mio fratello che è laureato in economia alla Columbia, ha provato a giocare a calcio in Europa ed è tornato in America per fare l’avvocato. Ma io sapevo che la mia strada era nel calcio».

 

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Gli studi in matematica aiutano a fare l’allenatore in questi anni di algoritmi e big data?

«Spingono a pensare in maniera logica per cercare soluzioni. E mi permettono di dialogare in maniera più approfondita con gli analisti statistici perché so di cosa si parla. Ma il calcio non è solo logica. Riguarda cuore, mente ed emozioni di un gruppo di persone».

 

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Klopp, Tuchel, Nagelsmann, Schmidt: la Bundesliga è il nuovo laboratorio del calcio europeo?

«È un ambiente aperto dove confrontarsi. Merito delle accademie create 20 anni fa dove gli allenatori possono scambiarsi idee e migliorare. A me è capitato con Nagelsmann, mio compagno di stanza durante il corso a Colonia. Sono stato suo vice all’Hoffenheim e siamo amici. Per lo sviluppo del calcio tedesco è importante anche la lingua che è ideale per andare in profondità nei concetti».

 

In Serie A, invece, ci sono appena due allenatori stranieri.

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«Non conosco bene il vostro sistema, però la scuola italiana è una delle migliori. Mi hanno ispirato molto Sarri e Gasperini. Però forse per gli allenatori l’Italia è un circuito un po’ chiuso».

 

Allenare in Italia è un obiettivo? Magari il Napoli, la squadra della regione dei suoi genitori?

«Certo, sarebbe un sogno farlo a un certo punto della mia carriera. La mia famiglia tifa Napoli e le altre squadre campane. Mio papà viene dall’Irpinia, mia mamma dalla provincia di Salerno. La mia idea iniziale, dopo la laurea, era giocare a calcio in Italia. Un procuratore mi aveva promesso un provino alla Salernitana, ma è sparito dopo che ero già atterrato in Italia. Allora ho provato con la Nocerina, ho segnato un gol in un’amichevole, ma il mercato era quasi chiuso e non mi hanno tesserato. Così sono rimasto tre mesi da mio nonno che coltiva nocciole. Ho mangiato, bevuto vino e capito come è bella la vita in Italia».

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Poi la Germania.

«Sì, perché un agente tedesco mi aveva notato quando giocavo nella squadra della Columbia. Non sapevo una parola di tedesco, sono partito dalla quarta serie, guadagnavo pochissimo e dovevo condurre una vita molto economica».

 

Adesso allena la squadra sconfitta proprio dal Napoli nella finale di Coppa Uefa del 1989.

«Ogni volta che esco dallo spogliatoio per andare verso il campo nelle partite casalinghe, alla mia destra vedo una foto di Maradona in mezzo al campo prima di quella sfida. Voglio la rivincita», dice sorridendo.

 

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Quanto amore per il calcio è stato necessario per non farla desistere nella sua lunga gavetta?

«Ho avuto coraggio e sono serviti sacrifici. Ma sapevo che era il mio sogno. Non ce l’avrei fatta senza l’amore e il supporto incondizionato di mia moglie, mio figlio e della mia ampia famiglia. Ancora adesso per mia moglie e mio figlio non è facile perché fare l’allenatore ad alti livelli porta via tante energie. Ma il calcio è bellissimo: gli stadi pieni, la connessione psicologica che si crea con altri esseri umani, questo sport unico che si gioca con i piedi e non con le mani. Qualcosa che coinvolge il corpo e la mente».

 

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C’è un calciatore che incarna questa bellezza?

«No, la bellezza del calcio è troppo grande per un solo giocatore».

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