SARRI ALLA JUVE NON E’ CHE FARA’ LA FINE DI MAIFREDI? LE ANALOGIE TRA 2 SCELTE TECNICHE DI “ROTTURA” - IL PROFETA DEL CALCIO ‘CHAMPAGNE’ APPRODO’ A TORINO SOLO DOPO L’ADDIO DI BONIPERTI, ANCHE L’ALLENATORE TOSCANO ARRIVA DOPO L’USCITA DI MAROTTA – IL DOGMATISMO, LA TUTA, LA MANCANZA DI UNO STILE JUVE, LE "ESIGENZE" DI CR7: IL PROFILO E IL PASSATO DI SARRI SONO TEORICAMENTE IN CONTRASTO CON LA STORIA DEL CLUB…

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Tommaso Pellizzari per corriere.it

 

 

Il modo di giocare

MAURIZIO SARRI MAURIZIO SARRI

Dunque, Maurizio Sarri è il nuovo allenatore della Juventus. Ovvero, una delle avventure più affascinanti che la Serie A potesse proporre. Solo che parte del fascino deriva dai rischi che la scelta del club per il dopo-Allegri comporta. Perché tra Sarri e la Juve ci sono diverse incompatibilità potenziali. E un po’ di tutti i tipi. La prima è strettamente calcistica. Sarri ha costruito la sua carriera su un’idea di gioco ispirata alla rivoluzione olandese degli anni 70 e alle sue derivazioni contemporanee: calcio offensivo, di possesso palla e manovra collettiva. In altre parole, una rottura completa con la tradizione bianconera. In cui, non a caso, quella di Gigi Maifredi nel 1990-91 è vissuta come una parentesi all’interno di una linea di continuità. È però vero che la rosa a disposizione, all’epoca, era di livello molto inferiore.

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L’ispirazione

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C’è però un’altra coincidenza tra la scelta di Maifredi e quella di Sarri: non a caso il tecnico bresciano arrivò a Torino solo dopo l’addio di Boniperti, sostituito da Vittorio Chiusano. Sarri approda in bianconero dopo l’uscita di Marotta e la nomina di Fabio Paratici a Chief Football Officer del club. Ora, se Boniperti è passato alla storia anche per la sua frase «Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta», Sarri ha una convinzione. Opposta: «Degli anni Settanta ricordiamo l’Olanda, che non ha mai vinto». Convinzione che ha sempre tradotto nelle sue squadre, alle quali ha imposto di cercare la vittoria solo e attraverso il gioco. Senza mai rinunciarvi. Perché la vittoria non viene prima di tutto. A favore di Sarri gioca un fattore: la Juventus lo ha scelto perché si è convinta che, per vincere la Champions League, è questo lo step necessario da superare.

Il dogmatismo

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È a questo punto che si presenta un altro problema: quello che, con un luogo comune, potremmo chiamare il dogmatismo di Sarri. Due anni fa, quando uscì il video di un allenamento del Napoli ripreso dall’alto, Sandro Modeo scrisse sul Corriere che bastavano quelle poche immagini per capire tanto la bellezza quanto i limiti del gioco di Sarri. Quanto avesse ragione, l’ha dimostrato la stagione appena conclusa dal tecnico toscano al Chelsea: partenza strepitosa, poi lo stop dovuto al fatto che i tecnici della Premier non hanno impiegato molto a capire come e dove infilare sabbia negli ingranaggi dei Blues. Dove Sarri si è guadagnato la chiamata della Juve, però, è stata la seconda parte della stagione. Quella in cui, memore di quanto successe al suo maestro Guardiola nel primo anno al City (l’unico della carriera con zero titoli) Sarri ha capito come e dove certe rigidità tattiche andassero modificate in base alle esigenze della Premier. Risultato: posto in Champions assicurato, vittoria in Europa League. E panchina della Juve. Che la società dovrà difendere dai dubbi dei tifosi, se e quando le prime difficoltà arriveranno.

 

 

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La politica

Poi ci sono gli aspetti non calcistici. Il primo ha a che fare con la personalità di Sarri. E con le sue convinzioni. Anche qui, bisogna stare attenti ai luoghi comuni. Perché, a dispetto della proprietà e dei successi, non si può negare che la Juve abbia (soprattutto nel suo tifo) un’anima fortemente popolare che trova nell’emigrazione degli anni Sessanta e Settanta a Torino il suo radicamento più forte. Quindi le origini di Sarri (il padre dipendente dell’Italsider di Napoli) o le sue convinzioni politiche di sinistra non sono necessariamente incompatibili col mondo Juve. Ma potrebbero diventarlo se non verranno in qualche modo, come dire?, canalizzate. Anche Trapattoni, per citare un totem, era di origini operaie. Mai rinnegate, anzi: orgogliosamente esibite. Ma in una chiave di ascesa e riscatto. Proprio ciò da cui Sarri ha sempre voluto apparire lontano.

 

Le letture

agnelli da sarri agnelli da sarri

Indicativi, da questo punto di vista, sono i suoi gusti letterari: il suo amato John Fante (foto sotto) è proprio uno degli scrittori degli ultimi, dei marginali e che Bukowski considerava «il narratore più maledetto d’America». Ma il problema non è nemmeno questo. Il solo fatto di dichiararsi un appassionato lettore sarà per Sarri un problema: perché il calcio italiano in generale guarda alle passioni intellettuali come Superman alla Kryptonite. E gli allenatori della Juve, più o meno esplicitamente, sono stati tra quelli che più hanno voluto distinguersi per l’opposto (vedi le liti Adani-Allegri, paradossalmente nel momento in cui il tecnico di Livorno aveva in pubblicazione proprio un libro…).

 

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I modi

Si potrebbe concludere con il terzo luogo comune, che ha a che vedere coi modi di Sarri: una sua certa rudezza, pochi peli sulla lingua, i nervi che ogni tanto gli hanno fatto superare dei limiti. Ma, anche qui, sarebbe ingiusto far finta di non sapere che le persone (soprattutto quelle intelligenti come Sarri) cambiano. Perché imparano. Per capirlo bastava guardare l’impeccabile abito e la cravatta perfetta con cui Sarri si presentò non tanto al suo primo giorno da allenatore del Chelsea, ma all’ultimo: quello della finale di Europa League vinta a Baku. Perché quella del primo giorno poteva sembrare una debolezza da provinciale. Ma quella finale non poteva non essere una scelta. Che renderà meno strano vedere Maurizio Sarri addomesticato dalla forma juventina.

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