Gabriele Neri per Domenica – Il Sole 24 ore
Essere dentro a un tunnel ma saperne coglierne le suggestioni, le sfide e le potenzialità. Parliamo di gallerie scavate nella roccia, non di psicoanalisi, anche se è questione di punti di vista. In questo caso gli occhi sono quelli di cinque bravi fotografi e i tunnel sono immani opere di ingegneria sotterranea: così possono nascere memorie dal sottosuolo come le campagne fotografiche dei grandi cantieri internazionali di Ghella, azienda specializzata nel settore fin dalla metà dell' Ottocento.
alessandro imbriaco sydney metro city.
La dinastia dei Ghella comincia infatti con Domenico, classe 1837, che dalle cascine milanesi si dirige a Marsiglia - a soli 13 anni - per lavorare come minatore; poi in Egitto, dove si sta ultimando il Canale di Suez, e infine a Istanbul per realizzare il Tünel di Galata. È il figlio Adolfo a proseguire le sue gesta, e da quel momento l' attività dei Ghella sarà una staffetta tra azzardi tecnologici ed eventi legati alla geopolitica mondiale. Col sogno di realizzare gallerie sempre più ardite, Adolfo - che parla francese, cinese e russo - passa dalle miniere d' oro australiane alle fumerie d' oppio asiatiche (lavora per la Chemins de Fer de l' Indochine); da Hong Kong (costruisce il tunnel di Beacon Hill, dopo che cinque imprese prima di lui avevano fallito) alla Russia zarista e all' Italia, dove partecipa al traforo del Sempione e ai delicati scavi per la metro di Roma a fianco del Colosseo.
andrea botto brennero oslo ghella
Si potrebbe continuare fino alle fondamenta del World Trade Center a New York, ma la storia dell' azienda è limitata a uno solo dei sei volumi editi da Quodlibet, che si riallacciano alla tipologia del libro fotografico aziendale facendo tuttavia sublimare il fine documentaristico in un progetto più ampio. Per il curatore (Alessandro Dandini de Sylva) uno dei riferimenti è Électricité, commissionato nel 1931 dalla compagnia elettrica di Parigi, per cui Man Ray interpretò la magia della luce artificiale attraverso celebri rayografie.
Gli altri cinque volumi sono assegnati ad altrettanti interpreti che affrontano in maniera libera il non facile compito di immortalare un vuoto. Rispetto a una parte consistente della fotografia dell' ingegneria, che prende come soggetto un manufatto di cui si sottolinea l' assemblaggio o la scala mastodontica (si pensi alle sequenze della Tour Eiffel o dei grandi ponti in costruzione), la restituzione fotografica delle voragini di Ghella deve individuare sguardi laterali o complementari per sopperire alla penuria sotterranea di riferimenti, saltando dall' urbanistica al microscopio.
Negli scatti di Alessandro Imbriaco troviamo ad esempio i graffi incisi sulla corazza delle talpe - bestie meccaniche alte come un palazzo e lunghe oltre 150 metri - che sbriciolano la roccia rossa, quasi marziana, di Sydney. Per scavare il tunnel di base del Brennero si usa invece un metodo old school, ovvero l' esplosivo, raccontato dagli scatti di (nomen omen) Andrea Botto, che da anni fa ricerca sul tema. Il suo sguardo rievoca leggende e conoscenze ancestrali legate ai vulcani; qui la serie fotografica diviene la cronaca di una performance, quella del «fochino» o brillatore di mine che allestisce la deflagrazione. Difficile cogliere quel momento: è necessario applicare principi di esplosivistica alla fotografia e viceversa, oltre che costruire un rifugio in cemento per proteggere la camera.
di roccia fuochi avventure sotterranee beacon hill tunnel, hong kong, china, 1907 archivio ghella
Le fotografie restituiscono anche la semiotica di queste viscere artificiali, un indecifrabile (per noi) codice di segnali simili a pitture rupestri, fatto di numeri, frecce, ideogrammi che parlano una lingua ermetica ma precisa che permette ai suoi adepti di orientarsi. Possiamo immaginare il successivo e più democratico universo di lettere e numeri che guiderà le masse, magari bello come le grafiche di Massimo Vignelli per la metro di New York. Ma qui siamo ancora in una dimensione pre-estetica, che ricorda piuttosto le immagini della Stazione spaziale internazionale scattate da Paolo Nespoli, in cui analogamente migliaia di razionalissimi congegni - fili, tubi, pulsanti, spie, luci, bulloni, colori, segnali di pericolo - diventano disordinate decorazioni necessarie.
francesco neri hanoi pilot light metro line
Gli sguardi insistono poi sul negativo e sul contrasto: quello tra la natura vergine (foreste di conifere sopra al Tunnel di Oslo) e quanto accade sottoterra, oppure tra l' impersonalità della tecnica e i primi piani degli operai. Se per Fabio Barile l' assenza dell' uomo indaga la «temporalità diversa» del pianeta, in cui «l' essere umano ha un ruolo marginale», per Francesco Neri operai e passanti sono l' unità di misura del disordine urbano di Hanoi, con le tracce del cantiere sovrapposte ad alberi secolari e quotidianità. Si svela così la dimensione del tempo promessa da tali strutture. La geologia e l' ingegneria si trasformano in archeologia grazie ai reperti rinvenuti ad Atene nei cantieri della metro, ritratti da Marina Caneve come indizi della caducità dell' opera umana: le infrastrutture sembrano eterne ma - vedi le tragiche immagini del Ponte Morandi collassato - sono anch' esse soggette a invecchiamento e morte.
Scavare, insomma, è un' arte pericolosa ma potenzialmente feconda: non solo in senso letterale (atto di violenza originaria sul mondo, è un' operazione necessaria per piantare i semi del futuro) ma anche nel modo indicato da questi fotografi, impegnati a scalfire l' immagine della tecnica per decomporla in non scontate stratigrafie estetiche e concettuali.
fabio barile oslo follo line 3 fabio barile oslo follo line 2 oslo tunnel 2