cluster macro asilo

UN MARZIANI A ROMA - GALLERIA OLTRE LA GALLERIA, MUSEO OLTRE IL MUSEO, RIFLESSIONI ALIENE DI FINE ANNO SU 'CONTEMPORARY CLUSTER' E 'MACRO ASILO' - "LA RICOSTRUZIONE DELLA FACTORY DI ANDY WARHOL NELLO SPAZIO DI GIACOMO GUIDI E LA PERFORMANCE DI FINE ANNO AL MACRO CON INIART CHE HA PRESENTATO L’ANTEPRIMA DEL PROGETTO “NUOVO CICLO”: IN CERTI LUOGHI LE ARTI SONO VIVE PRIMA CHE VISIVE"

Gianluca Marziani per Dagospia

 

MACRO ASILO

E’ una galleria d’arte? Un negozio di design? Un club? Un concept store? La domanda, tra coloro che entrano per la prima volta al Contemporary Cluster, è spesso un dilemma su come classificare lo spazio ibrido di Giacomo Guidi. In realtà è proprio la sua aria sfuggente a renderlo unico e necessario, profilando un’attitudine diffusa in altre città: quella di un luogo gratuito che racconti la complessità del presente senza categorie chiuse, senza divisioni settarie tra discipline, senza paura di declinare le mille angolazioni del dato creativo.  

 

E’ un museo d’arte contemporanea? Un centro culturale per menti elastiche? Una nuova fondazione dedita ai soggetti chiave del nostro tempo? La domanda, per coloro che sono entrati una prima volta al MACRO Asilo di Giorgio De Finis, è stata spesso un dilemma ma anche l’inizio di una scoperta graduale e avvincente, l’esperimento sociale per un museo senza verticalismi, dove l’orizzonte degli eventi ci ha offerto la molteplicità del presente ad ingresso gratuito.

 

CONTEMPORARY CLUSTER FACTORY WARHOL

Sarà perché vengo da un pianeta in cui è bandito il preconcetto mentre si abbraccia il concetto, di fatto qui ho sentito non solo di attraversare ma di appartenere allo spazio progettuale, come fossi un frammento sinaptico dentro un motore umano, dentro i processi neuronali di un cervello a natura collettiva.   

 

Contemporary Cluster e Macro Asilo hanno stimolato le corde verdi della curiosità marziana, destando la mia attenzione su soglie non solo elevate ma coerenti e generative. Durante il 2019 sono i due luoghi romani che meritano il beneficio della sottolineatura, da riservare agli ambienti relazionali che superano la soglia della semplice mostra (di cui abbiamo bisogno, sia chiaro, ma non come unica possibilità curatoriale e non, soprattutto, come guida omologante per le istituzioni di una città).

 

CONTEMPORARY CLUSTER FACTORY WARHOL

L’evidenza di luoghi ibridi afferma il valore della raccolta culturale differenziata, senza preconcetti ideologici, una proposta che sia selettiva per inclusioni e non per esclusioni. Qui ho respirato un’aria meticcia che completava il panorama museale della città, aggiungendo alternative virtuose alle pregevoli mostre dell’autunno romano.

 

MACRO Asilo ha proclamato il suo essere museo ospitale: nel senso etimologico di ospitare un pubblico eterogeneo, un’alchimia umana senza stridore, tra sguardi ancora battesimali, nuovi adepti a fianco degli addetti, gente del quartiere che scopre l’irradiazione sul proprio territorio. Argomentare un programma giornaliero ha definito l’ospitalità in senso inclusivo, aprendo il ragionamento alla filosofia, all’antropologia, ai temi caldi del sociale, a una partecipazione connettiva, a un’analisi delle parole, a un taglio pedagogico in chiave di azione e riflessione.

 

Ci hanno sempre detto che il museo è il luogo dove inizia l’arte e si ferma per un istante la vita esterna con il rumore di fondo della metropoli; qui accadeva il contrario e l’arte iniziava solo dove entrava la vita, il battito della contraddizione, la percussione del conflitto, lo stridio dei temi condivisi.  

CONTEMPORARY CLUSTER FACTORY WARHOL

 

Essere uno spazio ibrido significa, prima di tutto, pensare e agire in forma ibridata e non canonica, possibilmente cambiando qualche regola d’ingaggio, evitando il rituale dei soliti moti, spiazzando calendari e consuetudini. Mi ha colpito, ad esempio, vedere da Contemporary Cluster la ricostruzione della Factory di Andy Warhol nei giorni natalizi: solo pochi giorni per una mostra (con relativi eventi serali da clubbing alternativo) di oltre 70 magnifici pezzi che, di solito, vedremmo acchittata per tre mesi in un museo a pagamento.

 

Giacomo Guidi, sulla scorta di alcune foto originali, ha ricostruito due ambienti della factory a New York: da una parte una sala di posa con luci rosse, monitor accesi, 10 serigrafie Campbell sulle pareti e mobilio random rivestito con vinile, carta stagnola e plastiche varie; dall’altra una sala Silver con l’argento come tono d’ambiente, mobili impacchettati alla Christo total black, la serie Marilyn su doppia parete, 2 Mona Lisa, 3 Munch urlanti, 4 Dollars, 1 Flower e un pezzo a disegno.

 

CONTEMPORARY CLUSTER FACTORY WARHOL

E poi gli altri due piani con fotografie originali, feticci, memorabilia, libri rari e alcune stampe firmate Gerald Bruneau. Tutti gli ingredienti, insomma, per una mostra da grande museo che, invece, spariglia le carte e si presenta come fossimo a un’alba warholiana anni Settanta, coi quadri che ribadiscono una favolosa precarietà nomade, da luogo in cui la festa è appena terminata, con gli amici andati via e il climax elettrico che rilascia scie malinconiche da sei corde rock. Ci vuole coraggio rituale per non essere pura galleria e non imitare un museo quando detieni opere che staccherebbero biglietti da 10 euro a ingresso.

 

Non è masochismo o follia ma modalità al presente, un approccio da “cattivi” maestri per nuovi alunni delle arti vi(si)ve. Un approccio che guarda ai nuovissimi utenti dell’arte, ai turisti che non si accontentano dei Musei Vaticani, alle generazioni di adolescenti da Instagram (o l’arte fa i conti con questo fino in fondo o avrà una vita sempre più complicata), ai “pentiti” di troppa tradizione, ai tanti contesti didattici che cercano altre idee, altri concept, altri dialoghi.   

 

CONTEMPORARY CLUSTER FACTORY WARHOL

Saluto e ringrazio Giorgio De Finis e il suo formidabile staff a tempo pieno, una crew che ha gestito la cronaca di una macchina impressionante, da oggi destinata al giudizio implacabile della Storia, l’unico luogo che manda a giusto processo i fatti oggettivi. Chiudo lo sguardo sul MACRO Asilo con una performance di fine anno cui sono legato per omonimia curatoriale. Ho, infatti, intravisto un Marziani dentro la Black Room del museo il giorno 19 dicembre, quando INIART ha presentato l’anteprima del progetto “Nuovo Ciclo”.

 

INIART MACRO ASILO PERFORMANCE BLACK ROOM

E’ stato uno dei momenti live più alieni per atmosfera e sospensione, un istante lungo 12 minuti in cui l’artista, disponendosi nello spazio come in un quadro del seicento olandese, ha dipinto un cuore anatomico mentre sedeva davanti ad un cavalletto. Manuela Traini (Iniart) ha evocato il canone filosofico della bellezza, quella che ha attraversato secoli di grandi ritratti, dal Rinascimento in poi, denudando per accenni il corpo ma aggiungendo due glitch: un kimono nero e una scarpa dal tacco alto, creando un perfetto cortocircuito tra icona e sincretismo, azione e fermoimmagine, (ri)quadro dello spazio e spazio del quadro ambientale. Filo conduttore e metaforico del progetto era il sangue della rigenerazione femminile, quel rosso che finalmente evita l’uso politico e militante, diventando ingrediente cromatico per dipingere un soggetto di sangue (il cuore), rendendo pura superficie l’assorbente intimo, avvolgendo i valori morali in una sospensione metafisica che isola l’artista dal rumore urbano.

 

C’era qualcosa di catartico nel gesto lentissimo di Iniart, nelle sue movenze da kabuki occidentale, nel suo illuminare il nero della vanitas barocca, nel suo riportare lo sguardo alla lentezza cosmica del gesto originario. La Black Room del Macro si è trasformata in un live a passo ipnotico, una sottile linea (femminile) rossa che mi ha ricollegato alla factory warholiana in via dei Barbieri. Il motivo riguarda la famosa lingua rossa per The Rolling Stones, la Tongue & Lip di John Pasche contenuta nell’album “Sticky Fingers”, quello con la cover grafica di Warhol, il famoso close-up sul jeans dal pacco rigonfio. La lingua rossa era per Warhol un’icona pop d’eccellenza, un contraltare grafico al pacco collinare di Joe Dallesandro.

 

Gianluca Marziani

Quella lingua invitante è oggi un claim visivo per Iniart, un ready-made pittorico che incarna i suoi contenuti catartici, la sua pittura liquida, le sue performance metafisiche. Dalla lingua dipinta scende una scia rossa, un fiume d’energia che connette la citazione al suo uso postdigitale, aprendo la pittura all’universo millennials, ai frammenti jpg, ai campionamenti sistemici, ai remix di una memoria necessaria.  

 

In certi luoghi le arti sono VIVE prima che VISIVE… parola di marziano. Parola di un Marziani a Roma.

Gianluca Marziani

 

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