LO STATO DELL’ARTE – LA MAESTÀ SOFFERENTE DI GAETANO PESCE IN PIAZZA DUOMO E L’ARTE DELL’ACCOMODO DEL “SALONE”: NESSUN MIRACOLO ARTISTICO A MILANO, QUELLO VERO È A ROMA CON “IL CORPO DELLA VOCE” AL PALAZZO DELLE ESPOSIZIONI – UNA MOSTRA NON SU QUELLO CHE SI VEDE, MA SU QUELLO CHE SI SENTE CON TRE PROTAGONISTI: CARMELO BENE, CATHY BERBERIAN E DEMETRIO STRATOS

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Lemmonio Boreo per www.linkiesta.it

 

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Troppi tragici greci e psicanalisi? Non si capisce perché a Milano l’arte debba portare un che di doverosa sofferenza (o meglio si capisce benissimo, occhio alle radici cattocalviniste della città) fatto sta che la Maestà sofferente di Gaetano Pesce in piazza Duomo porta davvero sofferenza, coi chiodi conficcati in quella poltrona Venere Parabita. E deve!

 

Risponderanno quelli per cui la forma si fa per forza contenuto e un’opera che rappresenti la sofferenza della donna deve far soffrire (siete avvertiti: non avete capito Kafka se non vi siete trasformati in scarafaggi). “Your ethos/your pathos/your Aramis”, cantava Frank Zappa in Blue light, quindi tutto molto etico, tutto molto patetico, tutto molto aramaico. Tre aggettivi che sono statuto mimetico – ed epitaffio – dell’arte “scomoda”.

 

O arte dell’accomodo, vedi Salone del mobile, con le mille declinazioni del contemporaneo che fanno la gioia più che altro di chi affitta la stanza e si fa qualche soldino per il viaggio pasquale in Tanzania: nei giorni del Salone una singola si trova fino a 300 euro per notte. Una follia. Da prendersi un albergo a Lodi se proprio ci piace gironzolare per fuorisaloni vari, tanto c’è il passante ferroviario e si può stare in pace fregandosene di ethos, pathos e accomodo.

 

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Allo stato dell’arte niente miracoli a Milano. Intanto il miracolo, quello vero è a Roma. Alla mostra “Il corpo della voce” (aperta il 7 aprile va avanti fino al 30 giugno al Palazzo delle Esposizioni). Tre protagonisti: la mezzosoprano americana di origine armena Cathy Berberian (1925-1983), l’antiattore, antiregista, antiautore Carmelo Bene (1937–2002) e il cantante Demetrio Stratos (1945-1979, ricordiamo gli Area, devotamente).

 

Ed è un miracolo perché, finalmente, assistiamo a un rovesciamento di prospettiva. Una mostra non su quello che si vede, ma su quello che si sente. Spiegato bene: c’è anche una sezione scientifica, curata da Franco Fussi, medico-chirurgo, specialista in Foniatria e Otorinolaringoiatria, che offre ai visitatori un’accurata analisi dell’interno della cavità di risonanza dove si configura, carnalmente, la voce. Poi fotografie (certo), filmati (certo), zone interattive e zone d’ascolto ad alta fedeltà ove sentire cosa succede nel mondo, ancora misterioso, della voce. Del suono.

Salone del Mobile Salone del Mobile

 

È qui a Roma che accade il rovesciamento. Tutta la storia non solo dell’arte ma anche del pensiero è ampiamente mutuata dal visivo. Basta dire che in greco “theorein” vuol dire innanzitutto contemplare, guardare. Le metafore inavvertite che usiamo continuamente (“non vedo il problema”; “ti quadra?”) rivelano il legame fatale che è pure un po’ il bacio della morte: pensiero/visione.

 

Mimesi vuol dire “imitazione” ma innanzitutto delle forme visibili. Vedere è abolire la cosa più fastidiosa in sede filosofica: la mutevolezza del tempo, perché concettualizzare significa tenere tutto fermo in una visione d’insieme. Tempo congelato. Vedere è controllare, come nel panopticon. Vedere è anche, controllo per controllo, interrompere la visione: a meno di situazioni da Arancia Meccanica, possiamo in qualsiasi momento chiudere gli occhi.

cathy berberian posa con il vestito di scena di stripsody, 1966 cathy berberian posa con il vestito di scena di stripsody, 1966

 

L’udire è molto meno urbano, molto meno controllabile, molto meno “nobile” filosoficamente: Kant metteva la musica non nell’arte ma negli oggetti piacevoli. Udire non è mimetico, ma metessico, appartiene alla sfera del contagio. E non è un caso che chiudere gli occhi, comunemente, significhi abolire anche il pensiero. Persino un po’ spaventoso a farci caso. Se la vista è “la puttana dei sensi” (Keith Richards), musica “est meditatio continua” (Alano da Fulda).

 

il corpo della voce carmelo bene, cathy berberian, demetrio stratos palazzo delle esposizioni di roma il corpo della voce carmelo bene, cathy berberian, demetrio stratos palazzo delle esposizioni di roma

E giriamola pure a luddismo, proprio nel momento del trionfo delle immagini (i filmatini i filmati, i filmatoni sui social) e del binge watching della vostra serie tv più odiata, l’audio è diventato per lo più sottofondo e muzak: pochi ritornelli e tante atmosfere. Carta da parati. Ancora visivo.

 

L’orecchio vuole tempo, la carne vuole tempo, e calma, “l’orgasmo è a occhi chiusi o arrovesciati” disse quello. I filmini sono buoni per P&P: preliminari e pippe

 

demetrio stratos esegue i mesostics di john cage allo spazio fiorucci di milano, 1977 demetrio stratos esegue i mesostics di john cage allo spazio fiorucci di milano, 1977

Qui a Roma irrompe la cecità del suono o del rumore. La parola Phoné (rumore, appunto) piaceva a Carmelo Bene, che aggrediva gli spettatori con altissimi livelli in decibel; Stratos sperimentava la polifonia vocale da solo e ammanniva scioglilingua omerici. Tutto corre in una scansione temporale non compulsiva, ma rituale quanto più è carnale. L’orecchio vuole tempo, la carne vuole tempo, e calma, “l’orgasmo è a occhi chiusi o arrovesciati” disse quello.

 

carmelo bene, hommelette for hamlet, 1988 carmelo bene, hommelette for hamlet, 1988

I filmini sono buoni per P&P: preliminari e pippe. Il suono, addirittura, oltre una certissima metafisica, ha una geografia sua, su cui gli aborigeni australiani, i tamburrinari di paese, i pescivendoli napoletani, i muezzin di Qom hanno cognizioni inquietanti per precisione e accuratezza. E gli ultimi inavvertiti giullari, che sanno farsi ciechi e cantare in qualchessia modo sono i veri performer.

 

Come pathos e come ethos la storia sarebbe questa, pure un po’ come Aramis, che faceva fischiare le lame. Se non vi piace beccatevi la poltrona della San Sebastiana. E l’infinita pallosità del concetto.

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