Mariangela Latella per ''Italia Oggi''
Dopo il boom degli agriturismi, la nuova frontiera dell' agricoltura è l' agri-atelier. Un connubio perfetto tra filiera agricola e moda Made in Italy aggiornato alla versione 4.0.
Quella eco-friendly, che promuove non solo la diffusione di tessuti vegetali come cotone, lino, seta o canapa, ma soprattutto le tinture 100% «green» ricavate, cioè, da prodotti ortofrutticoli, fiori o erbe.
È questo il progetto della eco-stilista Eleonora Riccio, che ha appena costituito una start-up e un brand di abbigliamento 100% eco-friendly a Roma, dove usa solo tessuti e tinte naturali per la realizzazione delle sue collezioni che spaziano dal prêt-à-porter all' haute couture con un unico filo conduttore: la ricerca spasmodica di prodotti naturali, come gli scarti ortofrutticoli (la cipolla, ad esempio, o i carciofi), per creare i colori con cui decorare i suoi vestiti.
Trentotto anni, una laurea all' Accademia di costume e moda di Roma.
Dopo i primi lavori presso le maison Ferrè e Ferragamo, Eleonora Riccio si mette in proprio, aprendo un laboratorio nel quartiere romano di Monte verde, dove tinge i tessuti di sua fabbricazione, con la tecnica di co-printing, immergendoli in pentoloni dove il materiale vegetale viene messo a macerare. Una tecnica tanto vecchia quanto poco diffusa sul mercato, che, però, in poco tempo sta ottenendo riscontri dalla filiera produttiva, che, di fatto, le ruota attorno: produttori ortofrutticoli, aziende erboristiche, ecc. Una di queste è Aboca; già conquistata dalla start-up della giovane eco-stylist, vende i suoi foulard green realizzati con le erbe officinali esposte al museo di Aboca a San Sepolcro.
«Mi sono accorta», spiega la Riccio a ItaliaOggi, «che il mercato aveva un gap importante: i grandi brand non hanno collezioni green con tinture naturali. Così ho aperto un laboratorio a Monte Verde, nel centro di Roma, dove tingo i tessuti con infusioni di melograno, cipolla, carciofi, robbia o ginestra. Ora sto cercando un atelier dove proporre i miei capi con degustazioni dei cibi da cui sono ricavati in un percorso che tocchi tutti e cinque i sensi». Ci vogliono le bucce di circa tre melagrane per tingere di ocra uno dei suoi foulard veduti al Museo delle Erbe Aboca, oppure 10 foglie di castagno per un foulard marrone. Ed i prezzi sono per tutti i gusti: dalle t-shirt a 50-70 euro fino ai capi haute-couture da 4 mila euro.
Oggi sono circa un centinaio le aziende italiane pioniere di questa filiera inedita, che mette insieme agricoltura e fashion e che è ancora tutta da costruire; soprattutto perché le blasonate maison della moda stanno iniziando adesso a guardare con crescente interesse al settore. Certamente di nicchia, ma con una domanda in costante crescita: il 78% degli italiani ha dichiarato di essere disposto a pagare di più per capi di abbigliamento eco-friendly, ma in Svezia si trovano consumatori ancora più attenti, disposti a pagare fino al 300% in più del prezzo attuale.
Creare la rete e arrivare al primo contratto di filiera «agro-fashion», è il progetto di Donne in Campo, l' associazione femminile di Cia-Agricoltori italiani, che ha appena lanciato anche il marchio registrato, Agritessuti: sarà presentato, con le prime case history, il prossimo 24 settembre, ore 10.30, nella terrazza dell' Auditorium Giuseppe Avolio a Roma, durante l' evento «Agritessuti: Paesaggi da indossare - Le Donne in Campo coltivano la moda».
«Si tratta di una filiera necessaria se consideriamo che l' Onu ha già bollato l' industria tessile come la seconda più inquinante al mondo, perché responsabile del 20% dello spreco globale di acqua e del 10% delle emissioni di CO2 e gas serra», precisa Cia-Agricoltori a ItaliaOggi, anticipando i dati dello studio: «Servono circa 2.700 litri di acqua per fare una maglietta e ben 10 mila litri per un paio di jeans».
E ancora: «Le coltivazioni di cotone sono responsabili del 24% dell' uso di insetticidi e dell' 11% dei pesticidi, nonostante occupino solo il 2,4% della superficie agricola mondiale». A fronte di questo impegno di risorse, solo l' 1% dei tessuti gettati viene riciclato e, secondo l' associazione Fashion for Goods, entro il 2030 il consumo di capi di abbigliamento aumenterà del 65%, con una maggiorazione di rifiuti del 61% e un aumento dell' uso di acqua del 49%.
«Nei mesi scorsi abbiamo avuto un incontro con l' ex sottosegretario all' agricoltura Alessandra Pesce, ci svela Pina Terenzi, presidente di Donne in Campo, «per presentare le potenzialità di queste innovative filiere basate sull' economia circolare e il riuso degli scarti della produzione agricola per creare tessuti e colori. Confido che l' attenzione non venga meno con il cambio dei vertici del Mipaaft». Del resto, «il know-how, in Italia già c' è», dice Terenzi: «L' abbiamo perché i processi usati per la tintura con materiale vegetale attingono alla tradizione tessile italiana. Nell' immediato potrebbero ri-coinvolgere almeno 3 mila aziende produttrici di piante officinali in tutto il Paese».