SAPEVATE DI MANGIARE PUMMAROLA CINESE? - MIGLIAIA DI TONNELLATE DI CONCENTRATO DI POMODORO PROVENIENTE DALLA REGIONE CINESE DELLO XINJIANG SBARCANO IN ITALIA OGNI MESE ED ESCONO SOTTO FORMA DI TUBETTI O BARATTOLI PRONTI PER ESSERE CONSUMATI IN TUTTO IL MONDO - QUESTI PRODOTTI SONO COLLEGATI AL SISTEMA DI REPRESSIONE CHE IL GOVERNO DI PECHINO APPLICA NEI CONFRONTI DELLA MINORANZA ETNICA DEGLI UIGURI…

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Matteo Civillini, Eric Szeto e Caitlin Taylor per www.irpimedia.irpi.eu

 

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Decine di migliaia di tonnellate di concentrato di pomodoro proveniente dalla regione cinese dello Xinjiang sbarcano in Italia ogni mese. Entrano in alcune tra le più importanti aziende conserviere in fusti da diversi chili ed escono sotto forma di tubetti o barattoli pronti per essere consumati in tutto il mondo.

 

Questi prodotti, almeno in parte, sono collegati a un sistema di capillare repressione che il governo di Pechino applica nei confronti della minoranza etnica degli uiguri. Ma, una volta “ripulito” dagli stabilimenti italiani il legame con lo Xinjiang scompare. Per il consumatore è praticamente impossibile esserne a conoscenza.

 

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Un’inchiesta di IrpiMedia, in collaborazione con CBC Canada, ha ricostruito dettagliatamente la filiera del concentrato di pomodoro cinese: dai produttori collusi con lo sfruttamento etnico nello Xinjiang ai colossi dell’industria conserviera italiana, che trasformano la materia prima.

 

Adrian Zenz, antropologo tedesco tra i maggiori studiosi al mondo della questione uigura, dice a IrpiMedia che le aziende conserviere italiane dovrebbero assolutamente cessare l’acquisto di concentrato di pomodoro proveniente dallo Xinjiang.

 

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«L’enorme portata del sistema di repressione operato dal governo cinese nello Xinjiang rende endemico il rischio della presenza di coercizione nella filiera di industrie come quella del pomodoro», sostiene Zenz. «Con il loro comportamento le aziende si rendono complici della campagna di repressione di Pechino nei confronti degli uiguri».

 

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Gli allarmi sulle violazioni dei diritti umani nei campi dello Xinjiang si fanno da anni sempre più rumorosi. Tanto che lo scorso gennaio gli Stati Uniti hanno vietato l’importazione di prodotti derivati del pomodoro che abbiano qualsiasi collegamento con la Regione Autonoma.

 

Ma gli affari lungo la rotta sino-italiana proseguono a ritmi serrati. L’Italia è di gran lunga il primo mercato al mondo di destinazione del concentrato cinese: nel 2020 ne sono arrivate più di 97 mila tonnellate, circa l’11% delle esportazioni totali di Pechino.

 

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Gli sbarchi di concentrato cinese in Italia sono più che raddoppiati nel 2021, con navi che approdano nei porti di Salerno e Napoli quasi tutti i giorni. Da sempre gli operatori del settore giurano che la materia prima non viene utilizzata in prodotti destinati al mercato italiano, ma in tubetti di concentrato e altri derivati venduti all’estero. Di preciso, però, non si sa.

 

La mancanza di trasparenza è diventata un problema più sentito ora che due big del settore sono finiti sotto indagine per presunte frodi. In realtà, un test permetterebbe di fugare una buona parte di dubbi. Tramite l’analisi dei livelli di minerali contenuti nei derivati del pomodoro, i ricercatori della Stazione Sperimentale per l’Industria Conserve Alimentari di Parma riescono a rintracciare l’origine della materia prima. Tuttavia, fino a tempi recentissimi, questo strumento – potenzialmente rivoluzionario – è stato tenuto nel cassetto.

 

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Il lavoro forzato nei campi di pomodoro in Xinjiang

Sono passati diversi anni da quando Adil è uscito da un campo di rieducazione per uiguri. Il trauma, però, lo perseguita ancora oggi. «A volte mi sogno di essere inseguito dalla polizia in Cina che mi vuole arrestare», racconta l’uomo di origine uigura a CBC. Dopo aver passato un anno e mezzo di prigionia ed essere stato obbligato a faticare nei terreni agricoli, Adil ha abbandonato lo Xinjiang. Oggi vive con la moglie e i figli negli Stati Uniti dove hanno ottenuto lo status di rifugiati politici.

 

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Il suo pensiero, però, va ancora al resto dei familiari rimasti nella sua terra natale, dove – dice Adil – sono costretti ai lavori forzati nell’industria del pomodoro. Dalla piantagione dei semi, alla raccolta dei frutti e alla trasformazione in concentrato.

 

L’impiego viene definito come “volontario” dagli apparati statali, ma la realtà sembra essere molto diversa. Per chi si rifiuta – spiega infatti Adil – le pene sono severe: «Chi non accetta il lavoro nei campi viene inizialmente multato», dice Adil. «Se la multa non viene pagata, le autorità possono confiscare terreni, bestiame, abitazioni, o, in alcuni casi, arrestare queste persone».

 

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I Corpi paramilitari che hanno creato l’industria del pomodoro cinese

Il racconto di Adil fa eco alle numerose testimonianze pervenute dallo Xinjiang riguardo alla sistematica violazione dei diritti della popolazione uigura, una minoranza di religione musulmana ed etnia turcofona.

 

Nel corso degli anni Pechino ha costruito un capillare apparato di controllo sociale e repressione: parte dal costante monitoraggio dei comportamenti, passa attraverso l’indottrinamento e si spinge fino alla reclusione in quelli che la comunità internazionale definisce come campi di rieducazione.

 

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Tra le misure adottate nei confronti degli uiguri c’è anche il trasferimento dei lavoratori dalla loro terra di origine in altre zone dello Xinjiang, o della Cina. Per Pechino questo programma offre alla minoranza musulmana la possibilità di migliorare le proprie condizioni di vita ed emanciparsi da situazioni di povertà.

 

Ma, a detta di gruppi per la difesa dei diritti umani, gli uiguri non hanno reale libertà di scelta e sono costretti ad accettare gli spostamenti nei “campi di lavoro”. Tra questi ci sono anche i terreni coltivati a pomodoro, primo tassello di una filiera che ha il suo snodo centrale in Italia.

 

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Chi esporta il pomodoro dello Xinjiang in Italia

I produttori cinesi che esportano abitualmente in Italia sono una dozzina, ma un nome spicca per regolarità e rilevanza. Cofco Tunhe è la divisione che si occupa di coltivazione di vegetali del gruppo Cofco, colosso cinese dell’agroalimentare sotto controllo statale. Con sede a Urumqi, capitale dello Xinjiang, Cofco Tunhe vanta una produzione di circa 300 mila tonnellate di concentrato di pomodoro all’anno. I frutti vengono coltivati in terreni che tappezzano la regione autonoma, per poi essere trasformati in 15 stabilimenti produttivi.

 

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Tra i lavoratori impiegati da Cofco Tunhe c’è anche manodopera di origine uigura, spinta verso l’azienda dai “programmi di riduzione della povertà” promossi dal governo di Pechino. Un comunicato stampa diramato da Cofco Tunhe nel 2020 dice che il colosso del concentrato recluta lavoratori uiguri allo scopo di «promuovere l’unità nazionale».

 

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Cofco avrebbe inoltre «stretti legami» con i bingtuan, secondo un report della Commissione esecutiva del Congresso sulla Cina (CECC). L’organo bipartisan del Congresso americano scrive che «un’azienda corre un maggior rischio di essere complice di crimini contro l’umanità se fa affari con i Corpi di Costruzione e Produzione, o con società ad essi collegate».

 

Cofco Tunhe non ha risposto alle domande formulate da IrpiMedia.

 

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Attraverso l’analisi di dati doganali e documenti sanitari, IrpiMedia ha catalogato i rapporti commerciali tra i produttori di concentrato nello Xinjiang e le aziende di trasformazione italiane. Sono dodici i gruppi conservieri che almeno fino a giugno scorso – quando i dati sono stati ottenuti – hanno acquistato derivati del pomodoro nello Xinjiang.

 

Re assoluto della rotta sino-campana è il gruppo Petti, storico nome dell’industria delle conserve. Nei primi sei mesi del 2021 ha importato circa il 57% di tutto il concentrato di pomodoro cinese sbarcato in Italia. Tra i diversi fornitori di Petti con sede nello Xinjiang spicca proprio Cofco Tunhe.

 

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Più di 40 mila tonnellate di prodotto di origine cinese sono approdate nello stabilimento della Antonio Petti Fu Pasquale a Nocera Superiore in sei mesi. Lì l’azienda confeziona tubetti di doppio concentrato e passata in brick per il mercato estero delle private label, ovvero merce etichettata con il marchio del distributore (solitamente un supermercato) e non quello di Petti stessa. Tra i clienti ci sono giganti come Tesco e Asda nel Regno Unito e Whole Foods in Nord America.

 

Whole Foods ha ritirato la merce prodotta da Antonio Petti dai propri negozi, dichiarando inoltre a CBC di voler tagliare i propri rapporti commerciali con l’azienda italiana.

 

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Antonio Petti Fu Pasquale ha confermato a IrpiMedia di importare concentrato di pomodoro dallo Xinjiang, ma rifugge ogni responsabilità etica annessa. «La società Petti è dotata di un codice etico ai principi del quale si sforza costantemente di adeguare i rapporti commerciali con i partner esteri per il rispetto dei diritti umani», ha aggiunto l’azienda.

 

Petti spiega inoltre che «il concentrato di pomodoro di provenienza Xinjiang viene esclusivamente utilizzato per confezionare prodotti destinati ai mercati africani».

 

«È molto pericoloso questo concetto di poter compartimentalizzare la protezione dei diritti umani – dice Zenz -. Queste aziende utilizzano un prodotto che rischia fortemente di essere frutto di lavoro forzato e allo stesso tempo dicono «non lo vendiamo ai clienti nei Paesi Occidentali perché potrebbero avere remore etiche, ma non ci sono problemi a venderlo in Africa».

 

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In Italia, i consumatori trovano sugli scaffali conserve a marchio Petti, che l’azienda dice di produrre con pomodoro 100% toscano. A realizzare questa linea non è l’impianto di Nocera Superiore, ma un secondo stabilimento sito a Venturina Terme in provincia di Livorno. Proprio qui è scoppiato nell’aprile scorso il maxi scandalo delle presunte false passate italiane che ha colpito la Italian Food Spa, filiale del gruppo Petti. 4.477 tonnellate di prodotti finiti e semilavorati sono stati sequestrate dai Carabinieri per la Tutela Alimentari con l’accusa di aver utilizzato concentrato di pomodoro extra-Ue in prodotti venduti come 100% italiani.

 

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«Si è configurata una duplice ipotesi di frode in commercio – dice a IrpiMedia il Capitano Michele Chiara – sia per l’utilizzo di concentrato estero che per la produzione di passata non con esclusivamente pomodoro fresco».

 

In seguito al sequestro il gruppo Petti ha diramato una nota in cui sosteneva che la merce fosse destinata «per il confezionamento di prodotti a marchi terzi e all’esportazione fuori dall’Italia».

 

Antonio Petti Fu Pasquale ha detto a IrpiMedia che «l’Autorità Giudiziaria di Livorno ha provveduto a restituire parte dei prodotti sottoposti a vincolo». «Per una parte rimanente, oggetto di contestazione, è stata recentemente formulata diversa istanza di restituzione con prove indiscutibili della provenienza italiana delle materie prime impiegate», aggiunge l’azienda.

 

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L’operazione nei confronti di Italian Food è stata solo il primo tempo di una più ampia indagine su presunte irregolarità nel settore delle conserve di pomodoro. I controlli dei Carabinieri hanno interessato anche Attianese, altra importante azienda di conserve con sede a Nocera Superiore.

 

I militari hanno messo i sigilli su oltre 800 tonnellate di concentrato di pomodoro di origine egiziana pronto per il confezionamento in tubetti principalmente per il mercato estero. L’ipotesi degli inquirenti è che il materiale fosse contaminato da pesticidi, provocando quindi un rischio per la salute dei consumatori.

 

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Sentito da IrpiMedia, Pasquale Attianese dice che «il prodotto è stato acquistato in assoluta buona fede» e che analisi interne dimostrerebbero la bontà della merce. «Ci affidiamo all’autorità giudiziaria affinché, se ci sono problemi, faccia emergere delle contestazioni o altrimenti chiarisca la nostra posizione», aggiunge Attianese.

 

L’Egitto non è l’unico Paese straniero in cui Attianese si rifornisce di concentrato di pomodoro. Tra gennaio e giugno 2021, Attianese ha importato poco più di 5 mila tonnellate di concentrato dalla Cina.

 

L’azienda dice a IrpiMedia di non essere a conoscenza della specifica provenienza della merce importata dalla Cina: «L’origine (Xinjiang, Tianjin o altro) non mi viene comunicato dal mio trader perchè non mi vuole far sapere chi sono i suoi fornitori per motivi di segretezza commerciale». I documenti consultati da IrpiMediamostrano che Attianese ha acquistato concentrato di pomodoro da tre diversi produttori localizzati nello Xinjiang, tra cui Cofco Tunhe.

 

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Riguardo all’utilizzo del concentrato cinese nelle proprie preparazioni, Attianese spiega che viene principalmente inserito in prodotti destinati al mercato africano, ed in particolare alla Libia. «Una piccola percentuale» finisce in conserve per il mercato europeo. «Storicamente pochi supermercati accettano materia prima cinese», spiega Attianese. «Tuttavia, i numeri stanno aumentando ultimamente, perchè alcuni clienti vedono che la merce è buona».

 

Ad accelerare questo cambiamento sarebbe stata la campagna di raccolta pomodori del 2020. Le cattive condizioni meteo, associate alla domanda dei consumatori ai massimi storici, avrebbero causato una carenza di concentrato italiano.

 

«In questi periodi se il cliente non accetta pomodoro di origine extra italiana, diventa difficile soddisfare le richieste», dice Attianese. Per questo motivo l’azienda nocerinese dice di aver convinto i supermercati che rifornisce ad accettare prodotti contenenti pomodori di provenienza Ue o extra Ue, in base alle disponibilità.

 

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Risalendo la pianura dell’Agro nocerino-sarnese verso nord si incontra un altro centro nevralgico dell’industria del pomodoro. A Sarno in un’area di oltre 105 mila metri quadrati si estende lo storico stabilimento di Giaguaro, azienda guidata dalla famiglia Franzese dagli anni ‘60. Giaguaro confeziona bottiglie di passata, tubetti di concentrato e scatole di polpa a cubetti quasi esclusivamente per conto della grande distribuzione organizzata. Il suo mercato principale è la Germania, dove fornisce, tra gli altri, due colossi come Lidl e Aldi.

 

Dopo Petti, Giaguaro è il secondo maggior importatore di concentrato di pomodoro dalla Cina: nei primi sei mesi del 2021 ne ha acquistate 15 mila tonnellate. I documenti di certificazione sanitaria mostrano come Giaguaro faccia affidamento su diversi fornitori dislocati lungo il territorio dello Xinjiang.

 

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Oltre a Cofco Tunhe, l’azienda sarnese ha ricevuto diverse partite di concentrato da Anron Enterprise, un broker con sede nella periferia di Urumqi, capitale dello Xinjiang. Anron Enterprise compare tra i clienti principali di un’azienda produttrice che ha legami diretti con una divisione dei Corpi di Produzione e Costruzione dello Xinjiang, l’organizzazione paramilitare accusata di molteplici violazioni dei diritti umani.

 

Giaguaro ha dichiarato a IrpiMedia che il concentrato importato dalla Cina viene utilizzato per il confezionamento di concentrato di pomodoro destinato a quei clienti che richiedono espressamente prodotto di tale origine.

 

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«Giaguaro è da sempre particolarmente scrupolosa riguardo alla problematica dei diritti dei lavoratori, sia dei propri dipendenti che di quelli che fanno capo ai partner commerciali compresi nella propria filiera produttiva», aggiunge l’azienda, specificando di essere dotata di certificazioni che attestano la rispondenza della propria catena di fornitura agli standard etici.

 

Inevitabilmente, la responsabilità finale è dello Stato. Giaguaro dice infatti che elaborerà una formale richiesta al Ministero degli Esteri finalizzata ad accertare l’eventuale esistenza di un elenco di imprese [cinesi] che non rispettano i diritti dei lavoratori.

 

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Dove finisce il concentrato cinese dopo la trasformazione in Italia?

È complicato sapere con certezza dove finisca la valanga di concentrato cinese dopo aver varcato le porte degli stabilimenti di trasformazione. Coldiretti – che da anni porta avanti una campagna riguardo al pomodoro cinese – sostiene che questo commercio vada «controllato attentamente per evitare che possa nascondere frodi o inganni». Se fosse utilizzato in prodotti venduti in Italia, dovrebbe essere dichiarato in modo trasparente. Sebbene le recenti indagini nei confronti di importanti operatori del settore abbiano intaccato la fiducia nel sistema. In Italia esiste l’obbligo di etichettatura con il luogo di coltivazione del pomodoro utilizzato per i derivati. Questa normativa non è applicata ai prodotti destinati al mercato estero.

 

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L’Anicav – l’associazione di settore – dice che il concentrato viene spedito principalmente in paesi extra Ue, soprattutto in Africa e Medio Oriente. È vero, infatti, che una parte consistente del pomodoro cinese entra in Italia attraverso il regime di temporanea importazione: la merce entra in un paese comunitario, viene rilavorata e nuovamente riesportata verso un paese terzo, senza essere sottoposta a dazi doganali. Ma, a parte l’obiezione del professor Zenz, i Paesi che ricevono più prodotti derivati del pomodoro lavorati dall’Italia sono comunque Germania, Francia e Regno Unito, patrie dei più grandi gruppi di supermercati europei.

 

campi di concentramento per uiguri, nella regione dello xinjiang campi di concentramento per uiguri, nella regione dello xinjiang

Diradare la cortina di nebbia che avvolge questo business sarebbe, in realtà, già possibile da qualche anno. Esiste infatti un test di laboratorio che permette di rintracciare l’origine della materia prima con un elevatissimo grado di sicurezza. Lo si fa attraverso la mappatura degli elementi minerali osservati nel tubetto di concentrato o nella bottiglia di passata. Questi vengono poi comparati a valori di riferimento – ricavati attraverso l’analisi di campioni certi – che distinguono la provenienza del pomodoro. In altre parole, la concentrazione di metalli come rame, litio o cobalto può dirci se il pomodoro utilizzato nella conserva è italiano o estero.

 

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A sviluppare il test, attraverso una ricerca partita nel 2012, è stata la Stazione Sperimentale per l’Industria Conserve Alimentari (SSICA), un istituto di ricerca con sede a Parma e Angri, in provincia di Salerno.

 

Costituita nel 1922 come ente pubblico, la SSICA si pone l’obiettivo di facilitare l’innovazione dell’industria conserviera attraverso progetti di ricerca e consulenze specifiche. A finanziare la propria attività sono i contributi annuali che le aziende di trasformazione sono obbligate a versare.

 

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Dopo numerosi cambi giuridici, dal 2016 la SSICA è una fondazione nazionale di ricerca i cui i ruoli di comando vengono spartiti tra la Camera di Commercio di Parma e le organizzazioni degli industriali, prima su tutte Confindustria. Fino a ottobre 2020 a rappresentare dentro il CdA il settore delle conserve di pomodoro è stato Francesco Mutti, amministratore delegato dell’omonima azienda, nominato su designazione di Anicav, l’Associazione Nazionale Industriali Conserve Alimentari Vegetali.

 

posto di blocco nel campo di detenzione di artux, nello xinjiang posto di blocco nel campo di detenzione di artux, nello xinjiang

Poi, alla fine dell’anno scorso, un terremoto ha ribaltato i vertici della SSICA: gli organi di gestione sono decaduti e la fondazione è passata sotto il controllo di un commissario straordinario. Capolinea di un lungo periodo di lotta intestina tra le diverse anime del settore conserviero e di accuse incrociate tra rappresentanti di Camera di Commercio e industriali.

 

A fare da sfondo allo sconquasso amministrativo un groviglio di storie oscure, compresa un indagine della Dda di Bologna finita con l’arresto (a luglio 2020) della responsabile acquisti della SSICA Paola Signorino, per corruzione e turbativa d’asta, e del suo compagno, per associazione mafiosa.

 

prigionieri uiguri bendati nello xinjiang, in cina prigionieri uiguri bendati nello xinjiang, in cina

Mentre tutto ciò avveniva ai piani alti, però, nei laboratori della SSICA il lavoro di ricerca non si è fermato. Sotto la guida del tecnologo Antonio Trifirò, il Dipartimento Conserve Vegetali prosegue con successo lo sviluppo del test multi-elementare per la ricerca dell’origine del pomodoro. I ricercatori raccolgono 183 campioni certificati – l’ossatura della banca dati -, definiscono il protocollo per l’analisi delle componenti minerali e, infine, pubblicano i risultati su due riviste scientifiche sottoposte a peer-review.

 

L’articolo comparso sulla rivista scientifica Food Control nel quale vengono riportati i risultati dello studio della SSICA sull’analisi multielementare dei prodotti derivati dal pomodoro

 

CINA, BAMBINI DELLA MINORANZA UIGURA SEQUESTRATI AI GENITORI CINA, BAMBINI DELLA MINORANZA UIGURA SEQUESTRATI AI GENITORI

Il modello che dovrebbe aiutare i conservieri a stanare i falsi è pronto, ma, con grande sorpresa dei ricercatori, l’industria stessa non sembra interessata. «Dal punto di vista operativo non abbiamo avuto una richiesta dall’industria, zero assoluto», dice Trifirò.

 

«Durante un convegno nel 2017 ho detto agli operatori del settore “signori, io vi sto fornendo un’arma, ma non sta a me sparare”. Da allora ho vissuto anni di inferno», conclude. Trifirò dichiara di essere stato progressivamente demansionato, spostato da compiti operativi e di ricerca ad altri amministrativi, fino al punto che ha accettato un prepensionamento.

 

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Sentito da IrpiMedia, Tiziano Baggio, direttore generale della SSICA, conferma che Antonio Trifirò non è più al suo posto per “anzianità di servizio”, ma non smentisce che, fino al 2020, il test non sia stato usato per analizzare prodotti: «Il test di analisi multielementare è stato utilizzato tra il 2015 e il 2020 esclusivamente per la messa a punto della metodica per la produzione di due articoli scientifici».

 

«Data la complessità della produzione di dati analitici certi, che possano affermare, con un ampio grado di accuratezza, la garanzia dell’origine e l’autenticità dei derivati industriali prodotti, per poter fornire risposte sicure, certe e inequivocabili, SSICA ha ritenuto necessario procedere per gradi», aggiunge Baggio.

 

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Nel frattempo, nell’industria le acque si smuovono. Agli inizi del 2020 un’azienda di conserve invia per la prima volta una richiesta per sottoporre dei prodotti rivali al test multi-elementare. Il sospetto era che sul mercato ci fosse concentrato di pomodoro venduto come italiano anche se non lo era.

 

La richiesta inviata dall’azienda inizialmente rimane lettera morta. Dopo alcuni mesi la SSICA invia una risposta negativa: non è possibile realizzare le analisi – dicono i vertici della Stazione – perché il protocollo deve ancora essere validato scientificamente attraverso la creazione di un «dataset analitico, robusto e completo». Nonostante gli anni di ricerca e il doppio riconoscimento della validità del test a livello internazionale.

 

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La SSICA promette un nuovo progetto di ricerca, ma, arrivata la fine del 2020, non succede nulla. L’azienda bussa nuovamente alla porta della Stazione. Spiega di aver fatto analizzare i campioni in un altro laboratorio indipendente, il quale ha ipotizzato la presenza di pomodoro non italiano, contrariamento a quanto indicato sull’etichetta. La SSICA risponde dicendosi disponibile a ricevere gli stessi campioni, ma passa ancora del tempo.

 

La situazione si sblocca definitivamente nel maggio 2021. Ovvero, poche settimane dopo che il blitz dei Carabinieri nello stabilimento del gruppo Petti ha messo sull’attenti tutta la filiera del pomodoro. Dopo circa un anno e mezzo dalla richiesta originale l’azienda invia i campioni raccolti sul mercato inglese al laboratorio di Parma. La successiva analisi conferma i sospetti iniziali: «I valori non sono compatibili con una zona d’origine italiana».

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Tiziano Baggio dice a IrpiMedia che «il rallentamento è stato causato dalla straordinaria emergenza pandemica, ancora in corso, che ha bloccato diverse attività interne ed esterne alla SSICA».

 

Fonti interne all’industria raccontano che l’intervento dei Carabinieri è stato un vero spartiacque per la tracciabilità dei derivati del pomodoro. Prima ignorato, se non proprio ostracizzato, oggi il test multi elementare sta diventando sempre più richiesto.

 

Senza che nulla sia cambiato dal punto di vista della messa a punto del test, da maggio 2021 ne sono stati effettuati almeno 40, contro gli zero svolti nei quattro anni precedenti. A richiederli sono le forze dell’ordine, in primis, ma anche da operatori della grande distribuzione che vogliono certificare l’origine dei prodotti forniti dai trasformatori.

 

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