SMART WORKING SÌ MA NON COSÌ - IL CORONAVIRUS HA FATTO SCOPRIRE AGLI ITALIANI IL TELE-LAVORO: L’85% NON VUOLE TORNARE INDIETRO, MA NEMMENO CHE SIA UN OBBLIGO. ANCHE PERCHÉ FRA VIDEO-CHIAMATE A QUALSIASI ORA E CAPI CHE SE NE APPROFITTANO, IL RISCHIO È DI LAVORARE MOLTO DI PIÙ RISPETTO ALL'UFFICIO - GLI EFFETTI PER L’ECONOMIA DEI CENTRI STORICI È GIÀ DEVASTANTE: SOLO I RISTORATORI CI PERDONO 250 MILIONI AL MESE. MEGLIO FARE I TURNI E ALTERNARE LAVORO ‘SMART’ E IN SEDE, COSÌ SONO TUTTI CONTENTI

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1 – RIVOLUZIONE SMART WORKING L'ITALIA TRAVOLTA DAL LAVORO "TROPPE LE ORE DAVANTI AL PC"

Giuseppe Bottero e Claudia Luise per “la Stampa”

 

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«Dallo smart working non si torna indietro». La ricerca che certifica la svolta ha la firma dell'Università degli Studi di Milano e suona un campanello d'allarme per imprese, dipendenti e soprattutto per chi vive di commercio. Dopo i picchi del «lockdown» il numero di italiani che continua a lavorare lontano dall'ufficio si sta stabilizzando: secondo l'ultima fotografia del ministero del Lavoro erano 1,8 milioni, otto volte in più rispetto all'inizio della pandemia.

 

Ma la cifra potrebbe essere molto più alta perché le aziende non hanno l'obbligo di comunicarlo. La rivoluzione stravolge i diritti e la giurisprudenza: assieme alla pubblica amministrazione e alle ditte private, ora si stanno attrezzando anche le industrie. «Servono regole» incalzano i sindacati.

 

Perché i pericoli, in questo momento sono molti, nonostante i vantaggi: secondo uno studio condotto dall'ateneo milanese con la società di consulenza Variazioni l'85% dei lavoratori vorrebbe proseguire a distanza anche dopo la fine dell'emergenza, il 43% sostiene di aver vissuto questa fase di transizione «senza problemi», il 40% si dichiara favorevole «nonostante le difficoltà di gestione».

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«Però il tempo di lavoro è esploso» spiega Sonia Bartolini, sociologa dell'Università di Torino. «Lo smart working può aumentare il benessere e la produttività perché aiuta a conciliare meglio le tempistiche. Quello che è successo da noi, però, ha fatto sì che fosse parecchio problematico, perché ha coinciso con la didattica online e le scuole chiuse. Non eravamo preparati». Bartolini, che sta approfondendo il tema, denuncia un «effetto perverso: le ore di lavoro sono aumentate e non c'è stato un bilanciamento».

 

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È mancata quella che gli studiosi chiamano «interazione informale», i momenti in cui, lontani dalle sale riunioni, vengono prese decisioni, anche minime. «Sono stati sostituiti da una serie di videochiamate, che hanno invaso la vita privata». Nella fase acuta della pandemia, dice la Fondazione Di Vittorio, lo smart working avrebbe toccato punte di 8 milioni di italiani coinvolti. «E non ci sono state le pause che aiutano a rigenerarsi - ragiona la docente -. Le ricerche effettuate in altri Paesi ci spiegano che il lavoro a distanza accelera la risoluzione di un singolo compito ma se non si prendono precauzioni può diminuire la produttività».

 

Il governo sta lavorando a un piano per correre ai ripari, e nei prossimi giorni la ministra Nunzia Catalfo incontrerà le parti sociali. «Bisogna proteggere i lavoratori da un uso improprio - dice -. È importante incoraggiare il diritto alla disconnessione e verificare che non diventi un ulteriore carico per le donne». Le grandi aziende decise a non abbandonare il sentiero tracciato nei giorni dell'incubo virus si stanno attrezzando.

 

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«Alcuni gruppi hanno dichiarato che proseguiranno fino a dicembre: un esempio è Enel. Altri parlano di proseguire almeno fino a fine settembre, anche nella pubblica amministrazione. Almeno fino al termine dell'autunno i responsabili delle risorse umane stanno prudentemente mantenendo la possibilità di far rimanere tutti i dipendenti in smart working», spiega Luca Solari, docente di Organizzazione aziendale e presidente del collegio didattico del corso di Laurea in Management Of Human Resources And Labour Studies alla Statale di Milano.

 

C'è anche chi, come Fincantieri, ha già firmato un contratto ad hoc per 1950 dipendenti: una giornata a settimana si lavora da casa, con divieto di straordinario e un controllo bimestrale. «Dopo il Covid nulla sarà più lo stesso. Bisogna essere flessibili e in evoluzione», ragiona il segretario generale Fim-Cisl, Roberto Benaglia. Quella del mix, secondo Bartolini, può essere la soluzione giusta. «Il controllo non sempre passa attraverso la presenza, ci vuole grandissima organizzazione». Il contraccolpo può essere devastante.

 

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«Dalla mancanza di aree dedicate, alle attrezzature tecnologiche, all'equilibrio tra vita familiare e vita lavorativa. Questi sono i problemi generali che vengono sottolineati dai lavoratori. Poi ci sono temi individuali legati alla socialità, perché è chiaro che stare sempre in smart working vuol dire sacrificare questo aspetto.

 

Un elemento importante da sottolineare è che le persone dicono che vogliono rimanere in smart working ma non come scelta esclusiva» prosegue Solari. Invoca un compromesso anche Giancarlo Banchieri, presidente di Fiepet, l'associazione che riunisce i pubblici esercizi e le imprese della somministrazione. E cita il dossier compilato dall'Istituto Nazionale per l'Analisi delle Politiche Pubbliche: il lavoro agile, scrive l'Inapp, tende ad avvantaggiare i lavoratori con un reddito alto, in prevalenza uomini, accentuando così le disuguaglianze sociali.

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Tra gli altri aspetti da risolvere c'è la necessità di fornire strumenti adeguati al lavoratore, cosa che non è avvenuta durante l'emergenza. «Affidarsi alla connessione internet domestica e al computer personale del dipendente non è corretto - sottolinea il vicepresidente di Anitec Assinform Fabrizio Gea - perché l'onere economico spetta all'azienda». E non è nemmeno prudente «perché i dati aziendali devono viaggiare su reti e macchine protette e opportunamente configurate».

 

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«Quasi tutte le professionalità hanno momenti in cui è necessaria la presenza e funzioni che è possibile svolgere da remoto. Le organizzazioni aziendali dovranno ora studiare i singoli ruoli e creare soluzioni su misura che possano andare bene per ciascuno - commenta Solari -. Molti dicono che in fabbrica non si può fare lo smart working ma non è vero: dipende dalla componente manuale e anche nei casi di stabilimento di assemblaggio non tutta l'attività degli operai deve essere fatta in linea».

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Tra le aziende che stanno progettando catene di montaggio attivabili da operai a distanza c'è la Spea di Volpiano, un gioiello da cinquecento addetti che fornisce Samsung e Apple. «Dobbiamo avere macchinari automatici che funzionino anche senza operatore. Non si può fermare il mondo perché ci saranno nuove pandemie. Questo - spiega il presidente e ceo, Luciano Bonaria - non vuol dire che diminuiranno i posti di lavoro, ma che cambieranno le figure professionali».

 

 

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2 – IL CROLLO DI NEGOZI E RISTORANTI TRA UFFICI SEMI-CHIUSI E POCHI TURISTI. MA L'E-COMMERCE GALOPPA

Gabriele de Stefani per “la Stampa”

 

Il lockdown è un ricordo, ma anche a giugno, primo mese con piena libertà di movimento, i numeri dei consumi sono stati neri per commercio, pubblici esercizi e turismo. La ristorazione paga un conto devastante: 250 milioni al mese, denuncia Confesercenti. Tre miliardi l'anno.

 

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Non è solo un tema di scarsità di liquidità e poca fiducia che frenano gli acquisti: pesano lo smart working che tiene milioni di persone lontane dagli uffici e cambia le abitudini, e i minori spostamenti che tutti, per lavoro o piacere, stanno continuando ad affrontare. Non a caso, certifica un'indagine condotta da Confimprese ed ErnstYoung su 4.500 punti vendita di 50 marchi, a soffrire maggiormente sono i centri storici e i centri commerciali, mentre contengono le perdite i negozi di quartiere.

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 A giugno i negozi, escludendo i canali online, perdono il 27% rispetto allo stesso mese del 2019 e le mazzate più dure arrivano ai settori dell'abbigliamento (-45%), della ristorazione (-44%) e dei viaggi (-58%). Difficile non vederci la mano delle nuove regole e abitudini, tra centri cittadini e centri direzionali svuotati, complicazioni nel provare i vestiti per sanificazioni e distanziamento e ansia da spostamento su lunghe tratte.

 

Il quadro è negativo per tutti, ma la differenza tra centri e grandi aree commerciali (-30% a giugno e -45% nel semestre) e quartieri periferici/città di provincia (-20%) è netta e le cifre in alcuni casi sono ancor più secche: a Milano in corso Buenos Aires il crollo è del 40%, a Roma Est del 39%. Il conto complessivo del semestre dice -43%.

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E se è vero che il boom dell'e-commerce indica probabilmente la direzione da seguire (+135% nel secondo trimestre), è altrettanto vero che la struttura tradizionale dell'offerta non consente di far fronte a una realtà in cui, come certifica Banca d'Italia, la mobilità delle persone continua a essere ridotta di quasi un quinto.

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Anche così si spiega come a giugno, con le serrande rialzate, i negozi continuino a vendere il 27% in meno e i siti facciano registrare un altro +54%. «Negli ultimi quattro mesi, quelli segnati dal Covid - spiega Paolo Lobetti Bodoni, business consulting leader per ErnstYoung - nei negozi si sono persi quasi i due terzi delle vendite rispetto all'anno scorso. I segnali incoraggianti si colgono nelle vendite online e nel fatto che quelle nei cosiddetti canali fisici ora vanno ad un ritmo che sta nel range migliore che avevamo previsto».

 

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Il tema dello smart working che svuota città e centri commerciali è però quello caldo per commercianti e ristoratori: «Al di là delle cifre che - spiega Mario Maiocchi, consigliere delegato Confimprese - fanno ipotizzare una chiusura di 2020 nel migliore dei casi con un -25/-30% con impatti notevoli sulla continuità di molti operatori, bisogna ragionare sulle modifiche strutturali nei modelli di vita, in particolare smart working e viaggi di affari e di flussi internazionali.

 

Saranno da valutare gli sviluppi sui centri delle grandi città e sul canale travel per la ridotta presenza e traffico di lavoratori e turisti internazionali, questi ultimi anche con impatto su outlet e centri commerciali. Dall'altra parte ci sarà un ritorno di attenzione su location periferiche delle grandi città e centri storici delle città di provincia».

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