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LO STATO COMPRA "CASA BALLA" A ROMA, PER UNA CIFRA TRA I SEI E I SETTE MILIONI. LI VALE DAVVERO? COME MAI UN PREZZO COSÌ ALTO?  L’ULTIMA GIORNALISTA AD AVER VISITATO LA CASA, LAURETTA COLONNELLI, NEL 2021, L’AVEVA TROVATA VUOTA – “SCOMPARSI I QUADRI E I DISEGNI, I TAVOLI E LE CREDENZE, LE CASSAPANCHE E GLI SGABELLI, LE CORNICI E I PARALUMI, LE SEDIE E LE LIBRERIE, I PARAVENTI E I PORTAOMBRELLI, ADDIRITTURA QUALCHE PORTA, E I MOBILETTI IN VIA OSLAVIA SONO RIMASTI I MURI E I GRANDI ARMADI...”

CASA BALLA

Da “Anteprima. La spremuta di giornali di Giorgio Dell’Arti”

 

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Leggiamo sul Corriere della Sera che la casa Balla, a Roma, in via Oslavia 39b, sarà presto aperta al pubblico. Lo Stato, infatti, sta perfezionando l’acquisto per una cifra che, secondo Artribune, sta tra i sei e i sette milioni.

 

Come mai un prezzo simile per un appartamento abbastanza qualunque del quartiere Prati? Perché, secondo quanto dice il ministero dei Beni culturali, la dimora è arricchita «dai mobili, dalle lampade, dalle sedie, dai tavoli, dalle poltrone, dai soprammobili, dai letti, dalle suppellettili incredibilmente moderne e tutte nate dall’estro visionario di Giacomo Balla».

 

Lo Stato deve essere entrato in possesso di questi arredi negli ultimi tempi: l’ultima giornalista ad aver visitato la casa, Lauretta Colonnelli, l’aveva infatti trovata praticamente vuota.

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QUEL CHE RESTA DI CASA BALLA

Articolo di Lauretta Colonnelli per “ArteDossier” - giugno 2021

 

La ricostruzione di casa Balla, nel centocinquantenario dalla nascita di Giacomo Balla, è apparsa da subito un’impresa mille volte più difficile della «ricostruzione futurista dell’universo», ideata nel 1915 dall’artista con Fortunato Depero.

 

I visitatori che riusciranno a entrare nell’appartamento al quarto piano del palazzetto in via Oslavia 39, nel quartiere Prati a Roma, dove Balla visse con la famiglia dal 1929 al 1958, troveranno un guscio vuoto.

 

Scomparsi i quadri e i disegni, i tavoli e le credenze, le cassapanche e gli sgabelli, le cornici e i paralumi, le sedie e le librerie, i paraventi e i portaombrelli, addirittura qualche porta, e i mobiletti per le figlie, con gli angoli smussati perché le bambine non si facessero male.

 

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Tutti questi oggetti giocosi e rallegranti erano usciti dalla mente e dalle mani di Balla, artista poliedrico, che costruiva i mobili a incastro, senza chiodi e senza colla. E ritagliava nel legno, dopo averli dipinti, perfino i fiori da mettere sui tavoli e sul terrazzo. E disegnava anche gli abiti da donna e da uomo, e le borsette, le scarpe, i cappelli.

 

In via Oslavia sono rimasti i muri e i grandi armadi, notificati come beni inamovibili perché l’artista, per risparmiare il legno dei pannelli posteriori, avvitò le fiancate direttamente al muro e perciò anche gli armadi furono considerati muri.

 

Sono rimasti qualche lampadario, qualche mensola, qualche vestito futurista. E il grande quadro con “Le mani del popolo italiano”. Si può dunque ricreare integralmente casa Balla soltanto nella fantasia, osservando le rutilanti decorazioni delle pareti e degli armadi, e le foto delle stanze prima che venissero smantellate, e leggendo le descrizioni che ne fecero nel corso degli anni le persone che ebbero modo di vederla.

 

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La ricostruzione immaginaria è l’unica credibile. Perché casa Balla, più che un luogo, è ormai il ricordo di una casa che fu in continua metamorfosi. Una scatola magica, abitazione e studio e opera d’arte totale, che iniziò a prendere forma molti anni prima dell’arrivo di Balla in via Oslavia.

 

Tutto cominciò in un convento situato tra via Nicolò Porpora e l’attuale via Paisiello, nel quartiere allora spopolato dei Parioli, dove Giacomo era andato ad abitare con Elisa Marcucci, che aveva sposato il 15 giugno 1904. Lui aveva trentatré anni, occhi spiritati, baffoni e barbetta a pizzo. Era arrivato da Torino a Roma nel 1895, insieme alla mamma Lucia, e si era stabilito con lei al Quirinale, presso lo zio guardiacaccia del re. Aveva cominciato a lavorare come illustratore e ritrattista. Dopo vari trasferimenti, era approdato in questa casa stretta e lunga come una nave arenata nella campagna.

 

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Nel 1910 aderì al futurismo. E iniziò a rivestire di forme geometriche e colori accesi le pareti, che sarebbero diventate fondali per mobili futuristi.

 

«La casa di Balla tutta iridescente e scintillante di colori, di vetri fracassati dal sole e da tutte le parti, in tutte le ore, la casa di Balla traforata dall’aria e dal cielo azzurro cinguettante... il suo studio ingombro di quadri geniali, di costruzioni dinamiche, di svariate architetture diaboliche, fantastico di ogni magia...

 

La camera da pranzo coi piatti gialli, verdi, rossi, le tazze viola, lilla, le mensole smaglianti di lacche multicolori... Tutto un campionario fiammante di colori in quella casa!... magia caleidoscopica di colori aggressivi.

 

Carte variopinte sgargianti che si riflettevano in lamine di stagnole, occhi di celluloide che lucevano tremolanti in un quadro, lampade fantastiche di carta velina gialla e verde, accese dal sole, studi futuristi di velocità astratte, e lacche vermiglie, vernici cristalline di ratti e Paramatti, velluto, raso, damaschi, e Balla che vivificava vertiginosamente il suo ambiente pirotecnico, cantando ballando e suonando, invasato, col petto compresso sotto la chitarra...».

 

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Così Francesco Cangiullo, anche lui futurista, descrisse la casa. Poi, eccitato dalle invenzioni giocose di Balla, lanciò il “Manifesto del mobilio futurista: mobili a sorpresa parlanti e paroliberi”, proponendo mobili-giocattolo con meccanismi a scatto: «I MOBILI PARLANTI saranno dunque costruiti con intrecci, scontri corpo a corpo di lettere di variati caratteri. Fra i MOBILI A SORPRESA sarà indispensabile alle esigenze della vita moderna una sedia fatta a scatti e a sbalzi, che manderà a gambe all’aria chiunque fa per sedersi».

 

Balla intanto faceva pubblicare sul giornale Roma futurista l’annuncio «Visitate la casa futurista di Balla ogni domenica dalle 15 alle 18». Andò in visita Tommaso Marinetti e vi incontrò Benedetta Cappa, e poco dopo la sposò. Giacomo ci rimase malissimo. Sognava di far maritare con Marinetti la sua primogenita, Luce, che all’epoca aveva solo quattordici anni. Svanita la speranza, vennero scoraggiati successivi incontri di Luce. E in seguito anche quelli di Elica, più piccola di dieci anni.

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Quando la famiglia si trasferì in via Oslavia, le due ragazze avevano rispettivamente venticinque e quindici anni. Balla decorò le nuove pareti. Foderò di vernice rosso fiammante, illuminata da sagome astratte in giallo verde e blu, lo studiolo angusto con la finestra affacciata sul pianerottolo. Tagliò e rimpicciolì i mobili troppo grandi per le nuove stanze, dove vivevano in cinque, con la vecchia madre Lucia.

 

 

La casa diventò l’autoritratto del pittore e della sua strabordante creatività, uno spazio in cui tumultuavano la luce e il movimento che seppe interpretare così bene, e al tempo stesso un bozzolo in cui rinchiuse se stesso e la sua famiglia.

 

La moglie leggeva e cucinava. Luce ed Elica, che non avevano mai frequentato le scuole ma ricevuto in casa lezioni private, diventarono le sue vestali: posavano per lui, indossavano i suoi abiti futuristi, cucivano le fodere futuriste delle poltrone, gli macinavano i pigmenti, riempivano con il colore i suoi disegni, ricamavano con volute di fumo le stoffe assorbenti di strani mobiletti per fumare.

 

Elica, che si era appassionata all’astronomia e per questo era chiamata in famiglia l’Acchiappanuvole, volle un soppalco minuscolo nell’angolo della propria camera, e vi si rifugiava con un modellino in legno che rappresentava il sistema solare, per avere la sensazione di salire sopra il resto del mondo a scrutare i cieli stellati, ma con la testa premuta contro il soffitto.

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Balla morì il primo di marzo del 1958. Le figlie gli sopravvissero per una quarantina di anni, e continuarono fino alla fine a ricamare, cucire, dipingere, volontariamente recluse dentro il giocattolo del pirotecnico genitore.

 

Elica, che da giovanissima aveva avuto qualche successo come pittrice futurista con lo pseudonimo di Ballelica, abbandonò pian piano le linee di forza e le energie radianti della pittura paterna in favore di fiorellini e tralci di edera. Morì il 13 gennaio del 1993. Luce il 30 aprile del 1994.

 

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L’appartamento fu ereditato da tre lontani nipoti. Un corposo lotto di quadri era stato donato dalle sorelle alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma. Altre opere presero la strada di collezioni private. Alcune di queste, insieme a quelle di architetti, artisti e designer invitati a indagare la casa futurista, saranno esposte fino al 21 novembre al Maxxi, nella mostra

 

“Casa Balla. Dalla casa all’universo e ritorno”, curata da Bartolomeo Pietromarchi con Domitilla Marchi. L’appartamento romano, dopo essere stato in parte restaurato dalla Banca d’Italia, si apre per la prima volta alle visite guidate, con prenotazioni di piccoli gruppi.

 

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C’è chi reclama da tempo la sua trasformazione in museo. Pietromarchi assicura che diventerà la sede dell’archivio storico di Balla, con le lettere, i disegni, le fotografie, i manifesti. Ma la casa voluta e vissuta come macchina ludica, smontabile, mobile e capricciosa, come fucina delle idee futuriste, come laboratorio in continua trasformazione, non esiste più. Il suo dinamismo si è spento con la morte del pittore che Marinetti considerava il più grande del suo tempo, paragonandolo «a una nuvola temporalesca irta di folgori o meglio ad un ciclone che dà l’assalto ai ruderi».

 

Ila Beka & Louise Lemoine, tra gli artisti invitati dal Maxxi a indagare casa Balla, la presentano in un video come un reperto archeologico, come la casa di duemila anni fa che Fellini fa apparire in “Roma”, durante gli scavi per la metropolitana: con le figure dipinte sulle pareti che svaniscono alla carezza dell’aria fresca entrata nel sottosuolo.

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