CLIC! IL NOVECENTO IN UNO SCATTO – DA UN CRAXI CON IL GAROFANO DIETRO LA SCHIENA AL POLLICE DI BERLUSCONI IN GIACCA BIANCA (COI LIBRI FINTI SULLO SFONDO): UN’ORCHESTRA DI RITRATTI, SOLISTA IL MITOLOGICO GIUSEPPE PINO

Andrea Rinaldi per "l'Espresso"

A guardarli tutti assieme, questi ritratti, viene in mente un'orchestra. Uno dopo l'altro compongono un fraseggio incontenibile, libero da qualsiasi rigidità: ognuno parla di sé, evoca una storia e precisi sentimenti. Il solista però è l'autore, il fotografo milanese Giuseppe Pino: che quelle persone, i loro gesti, i loro occhi, li ha immortalati per sempre. Decine e decine di immagini, per lo più in bianco e nero, un corpus che non si può esitare a definire storico, intriso di sguardi capaci di trasmettere l'ironia gentile di un Chaplin o il surrealismo di un Man Ray.

Sono lavori di una vita che dal 10 aprile si potranno rivedere in volume grazie alla casa editrice Damiani: si chiamerà "The way they were - Portraits & Stories from the 20th century» (302 pagine, 50 euro) e "l'Espresso" qui lo svela in anteprima. Un libro riflessivo sul ritratto, un'impresa coraggiosa in un tempo in cui non ci si può sottrarre al bombardamento del "selfie". «Ho modificato il titolo di un famoso film di Sidney Pollack del 1973, riferendomi ai personaggi incontrati in più di trent'anni nel Ventesimo secolo. Ho assemblato dei capitoli con proprie caratteristiche, vuoi di grafica, di geometria, di ambientazione, di gestualità. Di personalità. Ho scelto dei dittici che non mi avevano ancora stancato. Immagini rigorosamente dall'archivio».

Il risultato è composto da centonovanta foto prive di didascalia, dove il piacere sta tutto nel rimanere assorti di fronte a persone che hanno fatto la storia culturale, imprenditoriale, politica dell'Italia e del mondo, senza preoccuparsi di leggere: «Purtroppo sono conscio, e non solo io, che nessuno legge i testi nei libri fotografici, e nemmeno le didascalie. Compreso il sottoscritto».

I ritratti sono stati raggruppati non in categorie, ma all'interno di capitoli dai titoli spesso criptici o spiazzanti ("No title", "How many?", "Why?", "Colored little pencils"... ). Il volume - per cui si sta lavorando anche a una mostra - ha un'apertura nell'apertura: il viso paffuto di Raffaele Carrieri in un trittico di mani, lo stesso che volle Andy Warhol su "Interview" come introduzione alla serie Modern Masters.

A cui segue un Nabokov in guantoni da boxe: li aveva indossati sul finire di un servizio in un hotel di Montreux, posando in guardia, per far sorridere Pino che, a suo dire, sembrava triste. E poi il primo doppio, Marcello Mastroianni da una parte e Son House dall'altra, 1970, entrambi guardano e si guardano. Un po' la filosofia del dittico che cerca l'autore, «un accoppiamento di due foto che, se viste separatamente sono solo due fotografie, più o meno interessanti, piacevoli.

Ma se le accosti, miracolo, può cambiare tutto. Se non c'era prima, arriva un significato nuovo, un'impossibilità di separazione». È sempre in questo primo capitolo che si incontra il ritratto a cui è più legato il fotografo, quello di Jacques Tati a Milano nel 1974. «Lo adoravo per la sua comicità silente, in punta di piedi» e proprio in quell'immagine il regista si solleva per leggere di nascosto il "Financial Times" a un ignaro turista. Tati era arrivato in città per il debutto di un suo film: era di pessimo umore per il manifesto disinibito scelto dalla distribuzione italiana, ma subito dopo la conferenza stampa, quando tutti se ne erano andati, si mise a disposizione di Pino. Il giorno successivo erano dietro il Duomo, il fotografo con la sua Nikon. «Fece tutto lui sfruttando i passanti inconsapevoli. Fu l'unica volta che maledissi la macchina fotografica».

Pino è del 1940, a 26 anni da autodidatta entra al "Panorama" di Lamberto Sechi. Si trasferisce poi a New York, dove comincia a collaborare con le case discografiche per le copertine dei musicisti jazz. Conosce Warhol e alla Factory fotograferà anche un giovanissimo Jeff Bridges con la testa infilata nella riproduzione di una chiesa gotica. Rientra in Italia a fine anni Ottanta. Il primo personaggio catturato dal suo obiettivo? «Duke Ellington. Il suo viso rubato nel 1966, in un camerino del Teatro Lirico di Milano.

È uno dei ritratti più datati, diventò e segnò l'inizio delle mie copertine uscite tra gli lp prodotti dall'Atlantic Records di New York». Il jazz, grande amore di una vita, ritornerà spesso, anche in altre pubblicazioni, come appunto "Jazz my love". Nel libro di Damiani c'è Miles Davis in canotta, avvicinato con un bigliettino dietro le quinte del Jazz Festival di Juan-les-Pins.

O la foto, sempre dello stesso Davis, che lo ferma 13 anni dopo, nel 1982, a New York, per "Rolling Stone", con la tromba in mano e la lingua sbarazzina fuori. E poi Bill Evans a Montreux nel 1969, magnetico, dietro quegli occhiali di plastica; Howard Johnson che fa capolino con gli occhi birichini da una tuba calzata in testa; Sonny Rollins che quasi guarda uscire la musica dal corno in cui sta soffiando; Enrico Rava, fissato due volte a distanza di vent'anni, nella stessa posizione, i capelli prima neri e poi bianchi.

Pino circonda i suoi soggetti di un'aura di autenticità, hanno una forte carica espressiva, li rende icone. Ognuna singolare, ognuna una variazione sul tema, il ritratto. Anche quando nel capitolo "How many?" le mani quasi rubano la scena ai veri protagonisti. Ci sono quelle grandi di Pasolini al Grand Hotel et de Milan nel 1969, conosciuto grazie all'amico Miro Silvera, che fanno il paio, nella pagina accanto, con quelle di Gianni Agnelli appoggiate su un tavolo della Fiat di Corso Marconi: scaturì, malgrado le escandescenze dell'ufficio stampa, da un'improvvisata di Pino durante un servizio per la copertina di "Capital".

Poco più avanti c'è anche il famoso pollice di Silvio Berlusconi in giacca bianca: i libri sullo sfondo, come appurò Pino curiosando, erano finti. Dalle mani agli oggetti, il passo è breve. E rimanendo in politica spunta un Craxi d'annata con il garofano impugnato dietro la schiena. Eugenio Scalfari di spalle che fa risaltare una copia di "Repubblica".

E Michael Caine fissa un'ascia sospesa sulla testa: si era concesso a quella insolita trovata perché aveva pensato che il fotografo avesse già visto "Trappola mortale", in cui usa proprio un'ascia per uccidere il coprotagonista. La moda è Ottavio Missoni che scherza con le sue lane, Diego Della Valle e i suoi mocassini, Krizia, Valentino sorridente tra due bastoni, Gianni Versace, Giorgio Armani.

L'utilizzo del colore è simbolicamente dedicato a disegnatori, progettisti e pittori, come Hugo Pratt, Ettore Sottsass, Mimmo Rotella, Guido Scarabottolo e per il capitolo dedicato agli artisti americani. Poi c'è la parte che prelude a un prossimo lavoro di Pino, quella del nudo, "Dressed-Undressed", in cui compare lo stesso fotografo che balla con Demetra Hampton facendo il verso al Mastroianni di Pietro Germi.


Un rimpianto dopo questo lungo viaggio fatto di sguardi? «Che in quel "They" non ci siano compresi alcuni nomi. Ma di altri tempi. Della storia. Con uno, comunque, ci sono andato vicino: Pablo Picasso. Volevo fotografarlo nella sua casa sulla Costa Azzurra, fine anni Sessanta, durante un festival del jazz a Juan-Les-Pins. Aveva in programma la visita di Ella Fitzgerald, che poi effettivamente ci fu: lui le fece pure un disegno sui seni mentre lei rideva. Il problema? L'invito ricevuto da un giornalista italiano era per un martedì mattina alle 9 in un bar. Lui arrivò puntuale, ma annunciandomi purtroppo che il tutto si era già svolto il giorno prima».

 

 

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