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EFFETTO VUITTON - NELLA NEONATA FONDAZIONE PARIGINA LA SPETTACOLARE MOSTRA DI OLAFUR ELIASSON. DOVE LA VISITA E' ESPERIENZA EXTRA SENSORIALE E LA FISICA DIVENTA POESIA. MA ANCHE MERCHANDISING IN TIRATURA LIMITATA AL BOOKSHOP

Ivo Bonacorsi per Domus

 

Come riflessa in uno specchio convesso che ricorda il tempo sospeso della Tavola degli Arnolfini di Van Eyck: “Contact” è la prima vera esposizione personale di un artista alla Fondation Louis Vuitton. 

 

 

 

 

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Trattandosi di Olafur Eliasson che aveva già riempito le vetrine dei negozi del brand con i suoi soli artificiali, che ha realizzato l’ascensore del negozio sugli Champs Elysées e soprattutto reso perenne la collaborazione con il gruppo nell’installazione permanente "inside the horizon" integrandola al forte segno architettonico di Frank Gehry, si direbbe un matrimonio perfetto.

 

Fortunatamente il coronamento di questo sogno di inclusione tra mecenatismo contemporaneo e arte, naufraga nell’eleganza  intrinseca alla logica della ricerca di Eliasson.

 

 

Qui l’artista ritrova la freschezza dei suoi esordi meno patinati quando al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris oramai dodici anni orsono, ma con la stessa direttrice Suzanne Pagé, un artista decisamente meno addomesticabile ricopriva il pavimento di lava e sembra parafrasarlo oggi nella nerissima carta vetrata industriale che avvolge l’installazione.

 

 

Nella disciplinatissima pratica del lavoro di Eliasson nulla sembra invariato quasi come quel titolo della mostra “ogni mattino mi sento diverso, ogni sera mi sento lo stesso” , l’artista e il suo studio inventano una riassuntiva e ciclica opera al nero e ne installano il dispositivo, nel cuore dell’architettura di Frank Gehry  per produrre una mise en abîme a contraddirne il gesto  magniloquente, in favore di una fruizione individuale, soggettiva e intrisa di emozioni. La passeggiata con l’empatia è la qualità prima di questa mostra in cui Eliasson non dimentica nessun particolare, nella costruzione di un’esperienza totale dell’opera e riesce a collegare la presenza di altri lavori esposti nell’edificio, come l’alchimia dei Clouds Paintings di Sigmar Polke o il riferimento alle sculture di Giacometti sapientemente installate nei piani superiori.

 

 

“Contact” è una traiettoria che si dipana tra un frammento di meteorite da toccare con mano all’ingresso e prima dell’immersione nel buio più totale di uno spazio esterno-interno di qualità astro-fisica, di cui ci viene fornito un percorso orbitale, quasi ellittico da cui non sono possibili uscite tangenziali.

 

 

 

Lo spazio che ospita la mostra diviene dunque un reperto, stiamo già contemplando le rovine di questo museo, il bianco immacolato del cemento Ductal non è che una presenza fantasmatica. Lo vediamo di tanto in tanto riflesso nelle sfere che appaiono comunque come piani convessi.

 

È la mappa reticolare dei pensieri non pensati “map for unthought thoughts” in cui la sfericità presunta dello spazio deambulabile si rivela essere un gioco di specchi e noi stessi diventiamo reticolo o meglio niente di più che ombre reticolari nell’interazione con lo spazio circostante.

 

Quasi come figure di Giacometti proiettate in una immagine di fantascienza. Esitenzialismo cosmico, sottolineato dall’arrivo imprevisto su un suolo semisferico, percepito dai piedi  come la calotta di un pianeta. È in corso un’eclisse rinforzata dal passaggio di una luce che taglia il nostro orizzonte esattamente come se un altro astro ci passasse davanti. Paradossalmente siamo passeggiando in uno spazio indefinibile. Eliasson ci fornisce un modello di spazio.

 

 

Bridge for the future un modello che potrebbe spiegare questa sensazione di vortice a metà tra il ciclone e il buco nero. Siamo in fatti in assenza di fisicità e la quasi totale mancanza di dimensione oggettuale diventa il punto di forza di questa mostra. Occorre ripensare agli elementi nel loro stato più puro come  fossero ancore percettive, all’aria o l’acqua o ricordare il meteorite all’ingresso.

 

 

 

Però ancora una volta siamo contraddetti da un altro lavoro: Big Bang Fountain, un flash liquido che rinvia al parallax planet percepito all’ingresso e, in misura maggiore, all’acqua che scorre tutto intorno alla Fondazione. L’acqua non è che un’apparizione sotto la luce di un dispositivo stroboscopico. Tutto all’insegna di un panorama ultramoderno, modellato da presupposti scientifici e imperniato sulla nostra assoluta fiducia nel dato fisico. L’atto paradossale è questo tentativo di localizzazione, che mettiamo in atto, smentiti dall’abilità di Olafur Eliasson a non pensare la natura incastonata nell’illustrazione ma invitandoci a esperirla.

 

 

Ed ecco allora che l’ellisse si completa con il periplo esterno nel grotto di inside the orizon dove un’installazione sonora di Samuli Kosminen e di Eliasson stesso fanno eco ai suoni percepiti all’interno della mostra. Sempre all’esterno, nella ricerca di un eterno ritorno, sta sospesa nel cuore dell’architettura di Gehry  Dust particle, una sfera di cristallo attende che un tracciatore installato sul tetto dell’edificio capti la luce solare e illumini a intermittenza la hall del museo.

 

In assenza di sole non possiamo che consolarci con le Little Sun (il bel progetto di lampada ecosostenibile) di Olafur Eliasson di cui un’edizione limitata è stata creata per l’occasione ed è in vendita nella boutique del museo.

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