ETERNO DI STEFANO - LA STELLA DEL REAL HA INCARNATO IL PROTOTIPO DEL GIOCATORE UNIVERSALE ANCORA PIÙ DI PELÈ E DI MARADONA E HA GIOCATO A PALLONE CON PAPA FRANCESCO (MANCA LA CONFERMA DI BERGOGLIO)

Gianni Mura per “la Repubblica

 

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Ora che don Alfredo lascia il campo forse cambierà la classifica dei più grandi calciatori di ogni tempo. Che poi ho sempre visto, in ordine alterno, i soliti tre nomi: Pelè, Maradona, Di Stefano. La morte, anche nel calcio, è una sorta di bonus: proietta in un’altra dimensione, ingigantisce. Se Pelè ha rappresentato il gol e Maradona l’invenzione estrosa, la pennellata dell’artista, Di Stefano è stato un po’ di tutto questo. Di gol ne ha segnati tanti: 157 in 182 partite coi Millonarios di Bogotà, 308 in 396 partite ufficiali con la maglia bianca del Real Madrid, di cui era presidente onorario al 2000.

 

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Nonno nato a Capri, padre siciliano di Nicolosi, pure lui Alfredo di nome. Madre argentina ma con radici franco-portoghesi: Di Stefano nasce a Baires nel quartiere di Barracas e già alla nascita è un incrocio di paesi. Lo sarà anche da calciatore. Col paradosso di non avere mai partecipato a un campionato del mondo. Pelè e Maradona, quattro a testa.

 

Negli anni Quaranta il River Plate era chiamato la Maquina. Un meccanismo meraviglioso che demoliva il gioco altrui, un attacco di stelle formato da Muñoz, Moreno, Pedernera, Labruna e Loustau. Di Stefano a 15 anni è titolare nelle giovanili, a 16 in prima squadra. Bisogna immaginarseli, quegli anni. Oppure servirebbe un Soriano a raccontarceli a modo suo.

 

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La universidad de la calle, l’università della strada, ha laureato tra i tanti anche Alfredo. Pare (manca conferma di Jorge Bergoglio il papa) che abbia giocato a pallone con papa Francesco, che abitava a due isolati di distanza. Vero (lo scrive nella sua biografia, intitolata “ Gracias, vieja”) che giocava vicino al Collegio Misericordia, nel cui giardino finiva spesso il pallone.

 

E un giorno una suora lo minacciò: o vieni a fare la comunione o la prossima volta non ti restituisco il pallone. Fu così che si avvicinò alla religione, ma senza esagerare. «Sono molto amico del Barba (anche Maradona chiamava Dio così: ndr) ma da calciatore non gli ho mai chiesto nulla. Non l’ho mai pregato di farmi vincere, perché anche i miei avversari potevano farlo e allora il Barba avrebbe fatto uscire un pareggio. Ma io volevo vincere».

 

Grazie, vecchia, sta scritto anche sulla base di un piccolo monumento alla palla che Di Stefano fece erigere nel giardino di casa. La palla che aveva segnato tutta la sua vita che sembra un romanzo. Forse lo è davvero. In famiglia lo chiamavano Kunta Kinte perché rivendicava di essere custode di tutti i ricordi.

 

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Il padre era contadino, raccoglieva patate. Era anche sindacalista, e affrontò con la pistola in pugno i mafiosi che pretendevano il pizzo. Ed è ancora per una vertenza sindacale che lui e altri grandi giocatori lasciarono l’Argentina per esibirsi con i Millonarios (un nome un programma) di Bogotà. Chiedevano maggiore libertà contrattuale e basi salariali meno precarie. All’irrigidimento della Federcalcio, appoggiata da Perón, risposero autoesiliandosi, ben pagati peraltro. Alfredo approfittò di una amichevole in Italia per volare in Colombia. Dall’Argentina, gliel’avrebbero impedito.

 

Poteva, negli anni d’oro, brillare come l’oro, in un mondiale. Ma nel ‘50 e nel ‘54 per l’Argentina era un voltagabbana, nel ‘58 la Spagna (terza cittadinanza sua) non si qualificò per la fase finale in Svezia. Ricordo uno striscione steso sul muro del cimitero di Poggioreale, dopo lo scudetto del Napoli: «E non sanno che se sò perso». Noi lo sappiamo cosa ci siamo persi: il primo Pelè contro il penultimo Di Stefano.

 

Nel ‘62 fu un infortunio serio a negargli l’esordio mondiale a 36 anni. La saeta rubia aveva perso molti capelli e non mascherava un accenno di pancetta. Ma quando Sandro Mazzola se lo trovò al fianco, prima della finale di Coppa dei Campioni a Vienna, rimase come paralizzato per l’emozione.

 

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Tanto che Luisito Suarez, ben avvezzo col Barça alle battaglie col Real, lo scrollò: «Siamo qui per batterli, non per chiedergli l’autografo ». E Mazzola si svegliò, giocò, segnò. Fu quella l’ultima partita di Alfredo, marcato da Tagnin, con la maglia del Real. Continuò a giocare fino a quarant’anni, con l’Espanyol, diventò allenatore vincendo campionati con River e con Real, ma guidando anche squadre meno titolate, come Elche e Rayo Vallecano.

 

Era un saggio, don Alfredo, circondato dal rispetto di compagni e avversari, e dalla gratitudine dei tifosi più anziani. Con lui, il Real aveva vinto di filata cinque Coppe dei Campioni. Non aveva mai partecipato a un mondiale? Pazienza. Chi ha giocato contro e chi l’ha visto giocare sa che Di Stefano ha incarnato il calciatore universale, prima che il termine venisse coniato per Cruijff e il suo Ajax, la sua Olanda. Di Stefano sapeva fare tutto bene, dai gol ai recuperi difensivi agli assist, e lo faceva con una naturalezza prodigiosa, giocava un calcio di chiarezza cartesiana.

 

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E aveva pure l’ironia, in un’intervista di Gianni Minà, di definire il calcio un gioco contro natura. «Istintivamente si usano le mani, tutti gli sport di squadra si giocano con le mani. Il calcio coi piedi, e sembra facile, perché il calcio è lo sport più popolare del mondo, ma facile non è. I piedi bisogna allenarli a lungo, usarli bene». In un’altra intervista confessò di aver bevuto botti di vino e mangiato quintali di pesce fritto per impedirsi di pensare, per riuscire a dormire. Diceva che i giovani non hanno più voglia di allenarsi duramente, non hanno voglia di soffrire.

 

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Al Millonarios era così bravo che ogni tanto esagerava. Si narra che un giorno dribblò mezza difesa avversaria, tirò forte dal limite: traversa. Sul rimbalzo partì il contropiede, lui andò a recuperare il pallone, ridribblò mezza difesa avversaria, tirò forte dal limite e fece gol all’incrocio. Stadio in delirio, ma il vecchio Pedernera, mentre tornavano a centrocampo gli disse: «Alfredo, no olvides que esto es nuestro pan».

 

Una frase umile e profonda che suonava come: «Non fare il bullo, basta vincere, non bisogna umiliare gli avversari». E questa frase di Pedernera Di Stefano se la sarebbe ricordata per molti anni. Un signore, sul campo. Uno spettacolo. Un mito, se volete. Quando al Real arrivò Puskas, uno che come ego e classe non scherzava, si ritrovò all’ultima giornata di campionato a pari gol con Di Stefano.

 

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E pensò che era meglio tenerselo buono. Dribblò anche il portiere, poteva far gol ma quasi dalla linea di fondo toccò indietro per Di Stefano, libero in mezzo all’area che con quel gol vinse la classifica dei marcatori. Sempre col 9 sulla schiena, negli ultimi anni giocava da centravanti arretrato, da regista aggiunto. Si dice che nel ‘53 l’avesse quasi acquistato la Roma, che poi lo giudicò troppo vecchio. Forse è una leggenda metropolitana.

 

Non lo è l’amicizia con Giacomino Losi, che gli fece scoprire le virtù del parmigiano reggiano e gliene spediva dei pezzi a Madrid. Ma erano altri tempi, l’ho già detto. In questi, per me Di Stefano era e resta il più grande di tutti, ma non perché è morto. Dopo una vita avventurosa in cui non gli è mancato nemmeno un sequestro, in Venezuela, ad opera di militanti castristi. Rilasciato dopo tre giorni, e uno dei sequestratori gli spedì un suo quadro per risarcirlo in qualche modo dell’angoscia: forse anche per lui Di Stefano era il più grande.

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