ITALIA ALLA DE-RIVA: ‘IL CALCIO? MASCHERA I PROBLEMI DEL PAESE, TENGONO LE PERSONE INCHIODATE ALLA TV PER NON FAR APRIRE IL FRIGO VUOTO’

Elvira Serra per ‘Il Corriere della Sera'

La tristezza va e viene, come la depressione che rallenta certe giornate. «Capita di tanto in tanto, è una questione di testa. Non ho avuto una grande infanzia, tutto parte da lì, e il resto me lo sono creato da solo». Nel resto, c'è la vigilia di Natale senza i due figli e le nipoti: «Il 24 lo trascorrono con la madre, noi ci vediamo la sera del 25. Non da me però, che con quattro bambine dai sette mesi ai tredici anni poi la casa bisogna rimetterla in ordine!».

Gigi Riva è un amabile chiacchierone. Se lo chiamate e sta per andare a fare una passeggiata da solo in centro, si mette comodo e rimanda di un'ora l'uscita. Se lo chiamate prima della pennica, dice che può stare solo cinque minuti e dopo quaranta è ancora lì che racconta. E se lo stuzzicate sulla volta in cui è stato iscritto nel registro degli indagati per falso ideologico (assolto), il 9 aprile scorso, non si sottrae: «Bello scherzo... Volevo andare a trovare Massimo Cellino in carcere e Mauro Pili disse che mi ci faceva entrare lui. Poi però mi ha fatto firmare come segretario. Figuriamoci, con i questurini che mi chiedevano del calcio».

La verità è che Gigi Riva è una leggenda vivente. E non soltanto in Sardegna, dove vive da cinquant'anni. «Arrivai nel 1963, orfano di entrambi i genitori. Mio padre aveva fatto tre guerre: quella del '15-'18 e quella d'Africa e aveva lavorato in una galleria ferroviaria durante la Seconda guerra mondiale: è morto di tumore ai polmoni; mia madre pure è morta di cancro, dopo tanti sacrifici per me e le mie tre sorelle. A Cagliari trovai una nuova famiglia». Erano i tifosi. Ricambiò l'amore incondizionato portando la squadra in serie A e regalando l'unico scudetto, nel 1970, in un campionato già segnato dalla formidabile punizione trasformata in gol ai danni del Milan con un siluro di sinistro a 130 chilometri orari. Gianni Brera lo soprannominò Rombo di tuono.

Confessa che non va più allo stadio a vedere i rossoblù. «Troppa ansia, soffro. Anche quando scendevo in campo io, se magari ero stato squalificato, non restavo mai in tribuna: prendevo la macchina e guidavo fino a Costa Rei o a Muravera. Ora ascolto il risultato finale e il giorno dopo mi guardo la partita. Faccio così anche con gli Azzurri, per vedere se Cassano ha fatto il bravo e se Balotelli ha reagito alle provocazioni».

In Nazionale è ancora suo il record di reti: 35 in quarantadue partite. «Ma si giocava molto meno. Adesso mi sembra quasi che vogliano mascherare i problemi del Paese con il calcio, tenendo le persone inchiodate al televisore per non far aprire il frigo vuoto». È stato team manager azzurro per più di vent'anni, fino a maggio, quando ha motivato le dimissioni con due parole: «Sono stanco».

Spiega: «Era diventato molto stressante per me: durante i match dovevo prendere il Lexotan per calmarmi. Prandelli mi ha chiamato un paio di volte chiedendomi di ripensarci. Il direttore generale della Figc Antonello Valentini ogni tanto ci riprova. Ma le mie ossa rotte si stanno facendo sentire. I problemi all'anca, con l'artrosi, sono peggiorati e la fisioterapia non basta. Non riesco più a fare le scale, mi devo fermare a metà. Non voglio fare il dirigente che zoppica...». Il suo favorito, oggi, è Giuseppe Rossi: «Perché è simpatico, educato, sulle labbra ha sempre il sorriso e in mano un pallone o una pallettina». Il miglior allenatore è Cesare Prandelli: «Umanamente eccezionale, la sua storia personale parla per lui. Sa prendere i giocatori nel modo giusto, sa punirli. Ed è un uomo buono».

Le giornate sono ritmate da piccole consuetudini. «Colazione nel bar sotto casa, dove c'è Eva che mi maltratta. Prendo caffè e brioche e vado nel mio studio, leggo i giornali - Corriere , Gazzetta e L'Unione Sarda - e controllo se qualcuno mi ha scritto su Internet, rispondo a tutti. Passo a salutare un amico, commentiamo le notizie. Tutte le sere ceno da Giacomo, che ha un ristorante di pesce, ma a me prepara il minestrone di verdure. Mangio da solo o, se capita, in compagnia. E faccio il nonno».

Gigi Riva non ha mai lasciato la Sardegna, malgrado potesse scegliere con quale club giocare. «Gli avversari ci gridavano "ladri, banditi e pecorai". Gli arbitraggi con le grandi erano sempre a nostro svantaggio. Eppure vedevo questi pullman di tifosi che arrivavano a Milano o a Torino dalla Germania, dall'Olanda, dall'Inghilterra. Nei loro occhi non leggevi la gioia dello sportivo, ma del sardo: era orgoglio. Come potevo andarmene? Ricevevo tantissime lettere, pure da Graziano Mesina, latitante: le sue le bruciavo. Mi era simpatico. Ma ci sono rimasto male per l'ultimo arresto: della favola che lo avvolgeva non è rimasto niente».

La voce si incupisce quando parla dei giovani. «Qui, in particolare, sembra di essere tornati indietro di decenni, quando bisognava emigrare per le miniere del Belgio. Oggi un ragazzo non può più permettersi di scegliere di andare a Londra».

L'ultimo sgambetto gliel'ha fatto L'Unione Sarda. «Gli indipendentisti dell'Irs vorrebbero candidarmi alle Regionali. Ora, a parte il fatto che non intendo fare nulla, mi ha offeso che abbiano scritto che non potrei correre per la poltrona di governatore perché non sono sardo. Io?».

 

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