biennale venezia 2015

L’ARTE O E’ AZIONE POLITICA SULLA REALTA’ O E’ SOLO DECORAZIONE PER IL NOSTRO EGO - LA SELFIE-GENERATION RINCOJONITA DAL GRANDE FRATELLO SMARTPHONE (FACEBOOK, TWITTER, INSTAGRAM, ETC) DOVREBBE ESSERE PORTATA IN CATENE A VENEZIA ALLA BIENNALE - BONAMI: “LA MOSTRA CURATA DAL NIGERIANO OKWUI ENWEZOR RIESCE A DIRE E A FARE QUELLO CHE NÉ EXPO NÉ GLI IMBECILLI DEI BLACK BLOC SONO STATI CAPACI DI FARE E DI DIRE"

 

1. A VENEZIA PER VEDERE TUTTI I FUTURI DEL MONDO

Francesco Bonami per La Stampa

 

okwui enwezorl x okwui enwezorl x

Con il padiglione centrale dei Giardini listato a lutto la prima cosa che viene da dire è «Si comincia male!». Anche perché le bandiere nere sono opera del pessimo e sopravvalutato artista Oscar Murillo stella piangente, più che nascente, del mondo e del mercato dell’arte. Appena entrati la sensazione potrebbe essere confermata da una serie di opere con la parola «FINE». Nemmeno si è iniziato che già tutto è finito? Assolutamente no. 

Il vestibolo ottagonale con la cupola decorata agli inizi del ’900 da Galileo Chini è dedicato tutto al nostro Fabio Mauri. Chi si lamenta del numero scarso di artisti italiani selezionato da Okwui Enwezor, curatore di questa 56ma Biennale, qui si renderà conto che non è una questione di numero ma di qualità e visibilità. Se non ricordo male, non credo che il padiglione principale abbia mai avuto nelle ultime edizioni della Biennale la prima sala tutta dedicata ad un italiano. Il funereo Murillo è già dimenticato.

 

beat kuert, machine ibeat kuert, machine i

Enwezor con la sua mostra intitolata Tutti i futuri del mondo è riuscito a dire e a fare quello che né Expo né gli imbecilli dei Black Block sono stati capaci di fare e di dire. Il mondo o meglio i tanti mondi che compongono il nostro pianeta è fatto di problemi e delle loro possibili soluzioni. 

wangechi mutu   blue eyeswangechi mutu blue eyes


Come un teatro
Il curatore nigeriano oggi direttore dell’Haus der Kunst di Monaco di Baviera le mette in scena con grande potenza ed eleganza aiutato nell’allestimento della mostra dall’architetto inglese David Adjaye. Dire che la mostra di Enwezor, almeno questa parte ai Giardini, sia una ventata di aria fresca sarebbe fuorviante. Il vento di Enwezor soffia violento e pesante non è certo un ponentino. I temi ed i protagonisti che mette sul suo palcoscenico (perché questa Biennale è un vero e proprio pezzo di teatro), arrivano da luoghi, società e culture dove la modernità sta ancora facendo i conti con diverse realtà, spesso contraddittorie e conflittuali: dall’Africa al Sud America all’Asia.

victor man   luminary petals on a wet, black bough (after giorgione)victor man luminary petals on a wet, black bough (after giorgione)


Il fatto che la sala centrale tutta ricoperta di moquette rossa sia stata trasformata in un’arena dove non si espongono le blu chip ovvero le opere d’arte più eclatanti, ma si narrano in vari modi i problemi presenti e passati del mondo è un segno chiaro di come il curatore abbia voluto trasformare l’esposizione in manifestazione, nel senso vero e proprio del manifestare in modo vocale lo stato delle cose. 

terry adkins   darkwater recordterry adkins darkwater record


Si recita il Kapital Oratorio, dal Capitale di Karl Marx, diretto dall’artista inglese Isaac Julien o si ascoltano le canzoni dei lavoratori e degli schiavi cantate in modo emozionante dalla coppia di artisti Julian Moran e Alicia Moran Hall. Non sarà una Biennale facile da digerire, molti film e molti video e tanto tanto tanto da leggere, ma non solo. Ci sono anche sculture disegni e pitture.

 

teresa burga   fuerzas operaciones especiales foesteresa burga fuerzas operaciones especiales foes

Bellissimi i quadri dell’americana Ellen Gallacher e quelli del pittore di Chicago Kerry James Marshall e pure le tele angosciantissime del giovane artista giapponese suicida Tetsuya Ishida. Delicatissimi i lavori dell’egiziana Inji Efflatoun a conferma che Enwezor ha scavato a fondo evitando il più possibile l’effettaccio biennalesco. 
Deserti e praterie
 

Un’altra italiana alla quale è stato dedicato un bello spazio è Rosa Barba con un film, leggermente sul palloso, che mostra deserti e praterie, ma confesso di non averlo visto tutto, magari ad un certo punto ci si diverte pure con qualche azione a sorpresa.

rosa barba   the long roadrosa barba the long road

 

Lo svizzero Thomas Hirschhorn ha sfondato invece, o cosi sembra, il tetto di una delle stanze, facendo piovere in mostra pagine di testi di filosofia greca, possibile, ma non garantiamo, citazione alla crisi economica della Grecia. In un’altra sala tantissimi disegni a matita del tailandese Rirkrit Tiravanija, un veterano delle Biennale. I disegni sono presi da immagini di manifestazioni di protesta in giro per il mondo. In un disegno c’è un cartello che dice «Stop Arguing», smettete di litigare, che forse riassume il titolo della Biennale. 

robert smithson   dead treerobert smithson dead tree


I mondi potrebbero avere un futuro se si smettesse di litigare. Ma c’è un’altra opera simbolo di questa parte della Biennale. E’ di Hans Hacke artista iperpolitico che però in questa vela blu degli Anni 60 che galleggia sostenuta da un semplice ventilatore ci offre l’opportunità di sperare che anche nei problemi ci possa essere un lato poetico nel quale abbandonarsi e abbandonare le nostre preoccupazioni. In un video del francese Chris Marker, ecco che appare la scritta «Life is very long», la vita è molto lunga. Anche questa frase rappresenta bene questa Biennale, nel senso che per godersela tutta è necessario avere una vita molto lunga davanti. 

ricardo brey   black boxricardo brey black box


Un giorno libero
 

Noi curatori siamo sempre ottimisti. Si esce dalla stanza dell’Inglese Jeremy Deller con uno stendardo che dice «Hello today you have a day off», salve oggi hai un giorno libero. Frase che va mano nella mano con quella di Marker. Una vita lunga e molti giorni liberi per poter capire una Biennale che ha il coraggio di raccontarci non solo il mondo dell’arte ma i mondi nell’arte dovrebbe aiutare a migliorare la vita e non a complicarla.

 

2. A VENEZIA SI TORNA ALL’UTOPIA (MULTIETNICA E ANTICAPITALISTA) COMUNISMO, DIRITTI UMANI, CONTROCULTURA: L’ESTETICA COME AZIONE POLITICA

Pierluigi Panza per il "Corriere della Sera"

 

qiu zhijie   jinling chronicle theater projectqiu zhijie jinling chronicle theater project

 Che nostalgia! Alla 56ª Biennale d’arte, che si apre domenica 9 a 120 anni dalla prima edizione, va in scena la rivisitazione 2.0 (anche se non c’è l’ombra di internet) della storia dell’utopismo comunista, dei diritti umani e dell’arte come controcultura. A cucinare questa ricetta intitolata All the World’s Futures — strappalacrime e retrospettiva per chi ha almeno cinquant’anni, forse educativa per i black bloc nichilisti —, è stato chiamato un Piketty dell’arte contemporanea, nato in Nigeria cinquant’anni fa ma ben forgiato nei salotti newyorkesi e già sperimentato a Documenta di Kassel: Okwui Enwezor.

padiglione armeno, armenity, curato da adelina von furstenbergpadiglione armeno, armenity, curato da adelina von furstenberg

 

Se negli anni Settanta l’arte era forma di liberazione dal giogo borghese (come insegnavano Sartre e Marcuse) oggi è diventata la sua rivisitazione etno-chic in una prospettiva le cui radici sono ben piantate nell’élite capitalistica internazionale e globalista. Una prospettiva talmente multiculturalista che, mentre da un lato la Biennale conta 89 padiglioni nazionali per offrire materiale identitario, nella mostra del curatore Enwezor difficilmente si può fissare la nazionalità degli artisti esposti, perché sono quasi tutti apolidi.

 

Sull’ingresso del padiglione centrale ai Giardini, dal quale è opportuno iniziare la visita, accoglie il visitatore la scritta Blues Blood Bruise (musica blues, sangue, ammaccatura): significato e connessione di queste tre parole sono «aperti e liberi» secondo il curatore, ma rimandano comunque a un episodio americano degli anni Sessanta in cui un ragazzino di colore fu ingiustamente accusato di omicidio e queste tre parole usate per la sua difesa.

oscar murillo   i don't work on sundaysoscar murillo i don't work on sundays

 

Pendono dalla grondaia di questo stesso padiglione lunghi drappi neri: «Non sono drappi, ma tele dipinte di Oscar Murillo e ci mettono in contatto con il resto della mostra — spiega Enwezor —, che è una mostra politica nel senso che tratta del nostro rapporto con la storia. Dal Seicento ci interroghiamo su cosa ci lacera e oggi sembriamo vivere queste lacerazioni senza cercare di dare una risposta unitaria». Ovviamente la rassegna — pure lei — mette in scena queste lacerazioni e non dà risposte.

melvin edwards   dakarmelvin edwards dakar

 

E così, superate le gramaglie eccoci di fronte The western wall , il muro realizzato nel 1993 da Fabio Mauri con le valigie dei migranti (oggi il brasiliano Vik Muniz varerà, invece, una barca dei migranti) , poi un video in cui Pierpaolo Pasolini spiega Cos’è il fascismo e infine — e qui ci scappa una lacrimuccia — l’inno sovietico a tutto volume che accompagna le immagini dello svedese Runo Lagomarsino sui successi dell’ingegneria falce e martello. A questo punto ci si potrebbe aspettare di veder spuntare nell’altra sala la salma di Lenin direttamente dalla Piazza Rossa; invece no.

marlene dumas   justicemarlene dumas justice

 

Nell’Arena al centro del padiglione centrale ai Giardini si legge ininterrottamente Das Kapital di Marx, ma in inglese (e senza traduzioni o cuffie), accompagnato però, per alleggerire questo «oratorio» (cioè riflessione collettiva, come la definisce Enwezor), da alcune performance: ad esempio, la lettura degli appunti ingialliti su Claude Lévi-Strauss di Louis Althusser (il filosofo che strangolò la moglie, ma fu dichiarato incapace di intendere) oppure l’osservazione di opere di «migranti, ma non solo, influenzati da Marx».

 

marcel broodthaers   un jardin d'hivermarcel broodthaers un jardin d'hiver

Sono opere come Theory of Justice (che è anche il titolo di un libro del filosofo politico John Rawls) dell’ex critico teatrale austriaco Peter Friedl, che ha preso ritagli di giornale e foto dagli anni 40 in poi sul contropotere: ci sono i partigiani, Fidel Castro, Feltrinelli con Pasternak, Nixon, i desaparecidos…, o come quelle dello scomparso registra cinematografico Chris Marker, che mostra i rifugiati politici in un’ambasciata nel 1973 o del «realista sociale» londinese Jeremy Deller, un juke box con rumori rivoluzionari e una raccolta di volantini di protesta.

luis gomez, la rivoluzioneluis gomez, la rivoluzione

 

Usciamo a prendere una boccata d’aria, magari davanti al padiglione israeliano curato da Hadas Maor costruito con pneumatici a simulare un bunker difensivo; e se l’aria è troppo pesante per la nostra riflessione, il padiglione russo offre un’opportunità: una gigantesca maschera antigas di Irina Nakhova.

 

liu ruo wangliu ruo wang

All’Arsenale molte opere sono state realizzate apposta per questa Biennale e l’aria assume i colori dell’arcobaleno: i temi sono gli stessi (diritti umani, contropotere, femminismo…) ma non più rivisitati bensì interpretati in versione etnica 2.0.

 

C’è la torre di tamburi alta sette metri di Terry Adkins (scomparso nel 2014 a Brooklyn), ci sono le performance lungo l’Arsenale trasformato da enormi muri bianchi, c’è il Cannone semovente di Pino Pascali del ’65, l’apocalisse di rottami della tedesca Katharina Grosse, le immagini dei movimenti femministi della svedese Petra Bauer, il Throne di Gonçalo Mabunda costruito con ordigni esplosi e poi maschere, stracci (chic), i vestiti tirati contro Putin esposti da Gluklya (Natalia Pershina-Yakimanskaya, fondatrice del collettivo Factory of Found Clothes ) e i grossi timbri di Barthélémy Toguo con la scritta ambigua Je suis Chalie Ebdo? .

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Anche in altri padiglioni sparsi in città domina l’idea dell’arte come azione politica — proprio qui, dove la politica ha abdicato ed è quasi tutto commissariato. A Ca’ Dandolo il Padiglione dell’Iraq espone acquerelli contro l’Isis e disegni realizzati da rifugiati; il padiglione dell’Armenia all’Isola di San Lazzaro una memoria sul genocidio perpetrato dai Turchi proprio un secolo fa; l’Azerbaijan punta sugli artisti che si opposero «al repressivo regime sovietico» e pure nel padiglione dell’Albania, Armando Lulaj ironizza nei suoi video sugli occupanti sovietici che colpirono una balena credendola un sottomarino.

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Sì perché il socialismo reale non fu poi quell’esperienza di liberazione dal capitalismo che Marx si aspettava; e così nacque un’arte come contropotere del contropotere. E oggi finiscono tutte in quel «Parlamento delle forme» che è la Biennale di Venezia.

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