UNA MOSTRA D'ARTE, PRIMA ANCORA DI ESSERE VISTA, SCATENA UN URAGANO DI POLEMICHE - E IL CURATORE BONAMI SBOTTA CONTRO LA MAFIA DELLA CRITICA: "SE NON STAI CON BONITO OLIVA O CELANT, HAI CHIUSO".

Gianluigi Colin per il "Corriere della Sera"


«Basta, basta, basta! Che disastro, non ne posso più». Nelle sale di Palazzo Grassi, tra le casse aperte e con i quadri ancora da montare, Francesco Bonami, curatore della mostra Italics. Arte italiana fra tradizione e rivoluzione 1968/2008, appare esausto delle feroci polemiche che stanno avvolgendo, come una ragnatela vischiosa, l'apertura di una mostra stroncata prima ancora di essere vista. Per alcuni, invece, è stata una perfetta operazione di marketing.

Una pubblicità straordinaria per una mostra accusata di rappresentare il primo evento «revisionista» nella storia dell'arte contemporanea.
Ma anche una rassegna che vede contrapposti in uno scontro aperto critici e artisti da una parte e il curatore, solitario difensore di un'idea, dall'altra.

Così, ecco una sequenza di insulti (da Achille Bonito Oliva a Mimmo Paladino), lettere di avvocati, e il caso legale, diventato simbolo di questa querelle, di un'opera di Kounellis (Scarpette d'oro, del 1971) voluta dal curatore ma poi contestata dallo stesso artista. E poi, ancora, per principio, mantenuta in mostra da Bonami e infine, obtorto collo, definitivamente ritirata.

Con cataloghi da rifare (in Electa sono impazziti di rabbia) e un infinito ping-pong di interventi e lettere ai giornali con richiami alla moralità, appelli ai «compagni di destra e sinistra» e velenose e ironiche punture: «Chissà se - scherza Bonami - in una mostra Da Socrate a Kounellis, il declino della sapienza greca, Socrate avrebbe accettato di partecipare». Insomma, un vero caos mediatico in cui i lettori e gli stessi amanti d'arte, sembrano perdersi.

«È andato tutto oltre misura, non è una mostra su di me o su una manciata di artisti. Ho ritirato Kounellis per evitare che tutto si potesse ricondurre a un fatto personale», spiega Bonami nel tentativo di chiudere la discussione e dar fine alle polemiche. «È una mostra sull'insieme del-l'arte italiana contemporanea - aggiunge -, con le sue contraddizioni, con il bello e il brutto: c'è tutto. È il tentativo di porre delle domande, di far riflettere oltre gli schematismi e le visioni settarie. La ricchezza di contrasti forma la nostra cultura. L'Italia non ha forse Riccardo Muti e Claudio Abbado, Renato Curcio e Giusva Fioravanti? L'Italia è un frullato. Tento di far capire questo. Il che non significa accettazione».



«Vede - continua -, se Kounellis avesse chiesto di scrivere una lettera contro Bonami, glielo assicuro, sarei stato più bravo di lui, più cattivo, più preciso».
Bonami è fatto così. Non riesce a trattenere la battuta, è più forte di lui. E poi continua, parla di potere, della casta della critica, dei meccanismi del mercato e degli interessi veri o presunti che forse stanno dietro alle polemiche: «Tutta questa confusione dimostra una cosa: c'è una lobby di potere che mette l'energia solo per bloccare. Non per fare. Ma dovremmo parlare di una vera e propria "Famiglia" che se sei dentro fai, ma se non appartieni alla "Famiglia", di Bonito Oliva o di Celant, non puoi e non devi fare niente».

Bonami dice di smorzare le polemiche ma mette benzina sul fuoco. E aggiunge: «La cosa più preoccupante sono gli obiettivi, solo piccoli interessi. Prendiamo la fondazione Melotti. Attraverso gli avvocati mi ha impedito di mettere un'opera in mostra perché ha organizzato una retrospettiva in una galleria commerciale a New York. Ma così si è pregiudicata la possibilità di accedere a ogni museo americano. Non era meglio una mostra al Moma o al Guggenheim? Vale anche per Kounellis. A pensar male mi chiedo: se fossi andato da lui a chiedergli un'opera recente, di cui è proprietario, mi avrebbe detto di no lo stesso? Sono solo illazioni, ma di fronte alle sue critiche così vaghe, non mi resta che pensare a questo».

«Sia ben chiaro, per me il mercato non è il diavolo, anzi» dice Bonami. Francamente non credo che la presenza di Guttuso o Annigoni possa spostare le quotazioni di questi artisti.
Comunque, non ho nessun Annigoni a casa». conclude ridendo.
«Quali opere posseggo?». Pausa, un attimo di silenzio. «Non ho quasi nulla, ma ammetto, ho un piccolo Damien Hirst. Nel '93 avevamo bevuto, e lui molto. Mi promise in regalo un'opera che poi mi donò anche quando era sobrio. Erano tempi non sospetti e non ho nemmeno mai fatto una mostra con lui. Ma, ahimè, non è tra quelle finite nei cataloghi e celebrate come grandi opere di valore. Confido però nel tempo».

«Vede, parlando di Hirst mi viene in mente una cosa», aggiunge Bonami. «Io preferisco i lavori di Cattelan. Ma Cattelan, rispetto a Hirst, è un vero dilettante. Il sistema dell'arte italiano è circondato da un incredibile dilettantismo. Sì, un dilettantismo familiare. Un esempio? Posso vedere Hirst a cena, fare due risate, il mattino dopo andare in studio e chiedergli un'opera per una mostra e sentirmi dire di no. In Italia non è possibile perché qui, la cena è un matrimonio di sangue».

Certo, dopo tutte queste polemiche, qualcuno continua a chiedere: da che parte stai? Ha ragione Bonami, ha ragione chi lo attacca? Boh! «Rispondo a tutti dicendo solo che Bernini faceva una scultura e poi erano i papi che decidevano dove metterla. L'arte, una volta creata, deve essere il simbolo della libertà». Silenzio. E poi ancora: «Come dire che Kounellis, se davvero fosse sicuro della sua arte, non avrebbe mandato avvocati a proteggere le sue opere. Ma ora basta, davvero, non intervengo più, basta polemiche, lo prometto».

Un'ultima domanda, però: visto che lei ha iniziato come pittore, avrebbe messo una sua opera nella mostra Italics? «Beh, no, insomma... sì. Sì, sì, ci poteva stare. Sempre meglio di una di Paladino».


Dagospia 19 Settembre 2008