FAST FASHION! - LA MODA VELOCE-ECONOMICA ALLA ZARA STA SEPPELLENDO I DINOSAURI ARMANI, GUCCI, PRADA E VERSACE - E TRIONFA UNA NUOVA GENERAZIONE DI MARCHI ITALIANI: SIXTY, LIU JO, PINKO, PEPE, NOLITA.

Maria Silvia Sacchi per il "CorrierEconomia" del "Corriere della Sera"

Le immagini degli impiegati di Lehman Brothers che lasciano gli uffici con gli scatoloni in mano sono state guardate con angoscia dagli imprenditori della moda perché sono, quelli, i consumatori tipici dei prodotti italiani. Ma mentre si affronta una nuova forte turbolenza dei mercati, che arriva proprio quando a Milano si svolge la settimana della moda che vede scendere in campo i grandi nomi dello stile italiano (termina sabato 27), emerge con sempre maggiore chiarezza che è ormai matura una nuova generazione di imprese.

Diverse da quelle che hanno fatto grande il made in Italy nel mondo. Imprese che non sono più centrate sulla figura dello stilista quanto su un equilibrio: quello tra stile, produzione e distribuzione. E dove la creatività si è spostata, come dice Andrea Ciccoli, partner di Bain & Company, dal prodotto al modello di fare impresa. Ne fanno parte soprattutto (ma non solo) imprese che prendono le mosse da quello che, con un termine che oggi probabilmente non rappresenta più bene il fenomeno, è stato denominato fast fashion; la moda veloce alla Zara, per intenderci.

Una velocità che ha travolto tutti, dai fornitori («una sfida per imprese strutturate come la nostra - dice Silvio Albini, amministratore delegato del Cotonificio Albini, maggior produttore europeo di tessuti per camicie - ma ne vediamo tutte le opportunità») ai negozi; dai saloni espositivi (ne sono nati di dedicati come Link.it, il primo, per la fascia alta; ma tutta la filiera fieristica sta riflettendo sulle sue date per adattarsi ai nuovi ritmi delle produzioni) fino ai concorrenti più tradizionali.

Nomi come Liu Jo, che ha raddoppiato i suoi ricavi negli ultimi tre anni. E Pinko, Patrizia Pepe, Nolita (grandi polemiche l'anno scorso per la pubblicità di Oliviero Toscani con una donna anoressica poi bocciate dal Giurì) fino al gruppo dalle dimensioni maggiori, 700 milioni di euro, la Sixty di Vicky Hassan e Renato Rossi. O anche nomi dello sportswear come Geospirit o Peuterey, del gruppo Tender che ha più che raddoppiato il fatturato in tre anni (75,5 milioni del 2007, con utili netti per 11,8 milioni).

Anche se i numeri non sono ancora quelli dei grandi delle passerelle, tranne Sixty, la prima a «promuovere» queste aziende è stata la Camera della moda guidata da Mario Boselli: «È proprio una nuova generazione, non una seconda. Aziende più industriali e con una quota di produzioni italiane abbastanza alta imposta dalla necessità di essere vicini per poter rifornire immediatamente i negozi», dice.



E ora sta per arrivare in libreria un volume dell'economista di Diomedea Enrico Cietta per Franco Angeli («La rivoluzione del fast fashion») per spiegare perché saranno queste imprese a raccogliere il testimone dai grandi stilisti. «Sono aziende - dice Cietta - che non si connotano per nessuna competenza in particolare quanto piuttosto per la capacità di coordinare le diverse competenze. Aziende leggerissime che puntano molto sulla progettazione per identificare le tendenze commerciali del momento».

«Il nostro è un settore dove coesistono formule imprenditoriali di successo anche contrastanti - aggiunge Michele Tronconi, presidente di Sistema moda Italia - Ma questo è un fenomeno sicuramente interessante, spinto dalla competizione globale che ha messo in primo piano le logiche industriali».

La cosa che fa riflettere è che queste imprese hanno fatto lo scatto quando il mercato è diventato più competitivo. La Liu Jo di Carpi dei fratelli Marco e Vennis Marchi è attiva da tempo, ma è dal 2000 che ha iniziato il boom. Dalla caduta dell'accordo Multifibre «quando era diventato chiaro che il ruolo dell'Italia come terzista europeo - e noi eravamo dei terzisti - sarebbe cambiato» dice l'amministratore delegato Marco Marchi. La svolta è stata creare un brand e affermarlo con forti campagne pubblicitarie (molti di questi imprenditori prediligono la tv).

«Ogni epoca ha i suoi figli - dice ancora Marchi - Noi ci siamo sviluppati in un momento di crisi, siamo nati snelli e siamo abituati a ragionare affrontando quotidianamente le difficoltà». Anche oggi che il barometro segnala tempesta forte, si dice ottimista: «Quest'anno arriveremo ai 210 milioni e abbiamo in previsione di crescere ancora. È vero che i consumi sono fermi, ma non sono fermi per tutti. Ci sarà una selezione fortissima nella quale dovremo sforzarci di essere ancora più creativi».

Anche per chi va bene crescere sarà difficile, e non solo a causa dei mercati. Intanto, gli investimenti nel retail richiedono molto denaro (non è un caso che più di una società abbia ridotto gli utili in parallelo all'aumento dei ricavi). Ma, soprattutto, «uno scoglio importante è la mentalità - dice Claudio Orrea, amministratore delegato di Patrizia Pepe, il marchio che forse più di tutti quelli di questo gruppo si sta spostando verso il pret-à-porter e che ha scelto le sfilate per la forza di comunicazione che le passerelle riescono a esprimere nei confronti soprattutto dei mercati esteri -. Siamo noi imprenditori che dobbiamo cambiare, evolvere, mentre spesso è più facile fare un passo indietro. E poi è difficile trovare un management che spinga a continuare su questa strada».




Dagospia 22 Settembre 2008